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Il Pakistan userà la castrazione chimica contro gli stupratori

In uno dei Paesi più pericolosi del mondo per le donne, il governo vuole cambiar le cose con le cattive. Ma non è per niente detto che funzioni

ARIF ALI/AFP via Getty Images

“Perché era in autostrada così tardi senza un fratello o un marito? Perché non ha controllato il serbatoio del gas prima di uscire di casa? E se proprio doveva viaggiare, perché non ha preso una strada meno isolata?”. Le parole di Umar Sheikh, capo della polizia della metropoli pakistana di Lahore, in risposta allo stupro di gruppo di una donna che era rimasta senza carburante in una strada fuori città a settembre, sono state la scintilla che ha fatto scoppiare l’incendio.

Migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade del Pakistan – a Lahore ma non solo – per protestare contro una cultura in cui le tantissime vittime di violenza sessuale e di genere vengono colpevolizzate e finiscono per ottenere giustizia solo in una minoranza di casi. Soltanto qualche giorno prima nel sud del Paese era stato ritrovato il corpo di una bambina di cinque anni, stuprata e poi data alle fiamme. Due mesi dopo, a novembre, una donna e la figlia di quattro anni sono state violentate per due giorni da un uomo che le aveva promesso un lavoro. Secondo uno studio del 2018 della Thomson Reuters Foundation, il Pakistan è il sesto Stato più pericoloso al mondo per le donne.

In risposta alla pressione di piazza crescente, il governo ha promesso di velocizzare il sistema giudiziario in caso di violenza sessuale: nuove misure sono state identificate dal primo ministro Imran Khan e recentemente convertite in legge dal presidente Arif Alvi. Il Parlamento ha ora quattro mesi per confermare la nuova legge.

Alcune delle soluzioni identificate, però, preoccupano gli osservatori dei diritti umani. Oltre alla creazione di un registro nazionale dei criminali sessuali, di centri di crisi che analizzino i kit per prove forensi di stupro entro sei ore dall’attacco e di tribunali speciali tenuti a processare i casi entro quattro mesi, infatti, il governo ha approvato una misura secondo la quale gli stupratori seriali potranno essere condannati alla castrazione chimica. È stata brevemente discussa la possibilità di estendere la pena di morte, che nel Paese viene ancora praticata in rari casi, sotto forma di lapidazione, ma è stata accantonata per un puro calcolo di politica internazionale: si temeva l’impatto negativo che una tale decisione avrebbe avuto su partner commerciali come l’Unione Europea.

Il testo della legge definisce la castrazione chimica come “un processo mediante il quale una persona è resa incapace di eseguire rapporti sessuali per un periodo della sua vita determinato dal tribunale, attraverso la somministrazione di farmaci che deve essere condotta attraverso una commissione medica certificata.” Una punizione simile – su base volontaria o meno – per reati sessuali come stupro o pedofilia esiste anche in Polonia, Russia, Corea del Sud, Indonesia, Danimarca, Svezia, Germania, Estonia e alcune parti degli Stati Uniti.

Utilizzata fin dagli anni Quaranta del secolo scorso come punizione contro individui identificati come criminali sessuali – stupratori e pedofili, ma anche semplici uomini omosessuali, come il noto matematico Alan Turing – la castrazione chimica utilizza determinate sostanze chimiche per ridurre la libido o l’attività sessuale di un uomo riducendone il livello di testosterone. Gli effetti collaterali sono tantissimi: depressione, perdita di densità ossea, aumento dei depositi di grasso, ingrossamento del seno negli uomini, perdita di peli e, in alcuni casi, disturbi del fegato.

Pur riducendo certamente la libido, però, gli esperti medici sono ancora molto dubbiosi rispetto al fatto che la castrazione chimica agisca davvero come deterrente efficace per i reati sessuali. “Certo, la castrazione chimica si traduce nella riduzione della libido”, ha commentato ad esempio il dottor Ritesh Gupta, direttore del dipartimento di Endocrinologia dell’Ospedale Fortis C-DOC di Nuova Delhi, “ma bisogna capire che i reati sessuali non riguardano solo la libido. Riguardano anche il dominio, la violenza, il voler dimostrare qualcosa”.

Riflette sulla stessa questione Amnesty International nell’opporsi all’introduzione di questa forma di punizione. “Le castrazioni chimiche forzate violerebbero gli obblighi internazionali e costituzionali di vietare la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti che il Pakistan ha sottoscritto”, ha dichiarato la portavoce Rimmel Mohydin. “Punizioni come questa non serviranno a riparare un sistema di giustizia penale imperfetto. Invece di cercare di distogliere l’attenzione, le autorità dovrebbero concentrarsi sul lavoro di riforma necessario a risolvere le cause profonde della violenza sessuale, dando ai sopravvissuti la giustizia che meritano e la protezione di cui hanno bisogno”. La riflessione forse non risponde alla sete di vendetta che tende a prevalere di fronte ad estremi casi di violenza, ma individua con precisione chirurgica le effettive lacune nel sistema giudiziario – e nella percezione sociale della violenza di genere – in un Paese ferocemente conservatore.

Secondo l’organizzazione War Against Rape, con sede a Karachi, meno del 3% dei casi di violenza sessuale o stupro in Pakistan si traduce in una condanna. Secondo il ministro della Scienza e della tecnologia Fawas Chaundhry, sono 5 mila l’anno gli stupri denunciati ogni anno in uno Stato di oltre 200 milioni di abitanti: un numero bassissimo anche rispetto ad altri Paesi molto più piccoli, che nasconde una mole di violenza che non vengono nemmeno denunciate. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti pubblicato lo scorso anno, le autorità esercitano sistematicamente pressione affinché le vittime di violenza di genere lascino cadere le proprie denunce, ed è raro ottenere giustizia. Lo stupro è soltanto una delle forme in cui questa violenza si manifesta: ogni anno si registrano un migliaio di delitti d’onore. Nè le mura domestiche, nè la strada o i mezzi pubblici, nè il posto di lavoro, nè le carceri, nè gli ospedali sono posti sicuri per le donne. Un retaggio patriarcale che è difficile pensare di intaccare con un trattamento farmacologico.

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