Genova, venerdì 20 luglio 2001, ore 16. Faceva molto caldo. Ero riparato con il mio amico Dege presso lo Stadio Carlini dopo una carica della polizia. Stavamo li da un po’. Avevamo camminato per tre chilometri buoni. Eravamo partiti dallo spazio adibito al Genova Social Forum a Punta Vagno. Le forze dell’ordine in tarda mattinata avevano circondato il Genova Social Forum intimando alle frange estreme dei manifestanti di allontanarsi lungo corso Italia, se no avrebbero caricato. Mi ero mosso con loro. Durante tutto il percorso avevo assistito a varie azioni di quei manifestanti che venivano definiti black bloc. Distruzione di videocamere di sorveglianza, atti di vandalismo contro auto di grossa cilindrata (ad esempio Mercedes, non una macchina di piccola cilindrata toccata), saccheggi o atti di vandalismo nei confronti di negozi in franchising di multinazionali (ad esempio Nike, non altri tipi di negozi), banche, supermercati di grosse catene e distributori di benzina.
Ero riuscito a chiacchierare con alcuni di loro. In particolare con un ragazzo inglese e un ragazzo basco che mi avevano spiegato il motivo della loro protesta. Lotta contro le multinazionali. Lotta contro il globalismo. Riot (sommossa, rivolta). Anarchia. Antifascismo. Mi è rimasto sempre un profondo rammarico per non aver avuto con me una videocamera. E il mio cellulare Nokia non aveva una fotocamera integrata. A quei tempi con i cellulari non si potevano fare foto o video. Avrei potuto documentare in cosa consisteva realmente l’azione dei Black Bloc. Non esiste un reportage, documentario, foto, che racconti quei momenti. Il nome dopo il G8 di Genova fu cambiato in Anthrax Bloc per dissociarsi da molti fatti e varie descrizioni che la stampa poco informata o di parte gli aveva attribuito. La sera stessa del 20 luglio la maggior parte di loro aveva già lasciato l’Italia.
Ero molto affascinato da questo movimento organizzato di guerriglia. Romantico. Mi ero informato. Avevo letto molto. Nel libretto Guerra de guerrilla Ernesto Che Guevara scriveva che tra le peculiarità di un guerrigliero ci deve essere l’estrema mobilità e la rapidità dell’attacco. Hakim Bey e il concetto di T.A.Z. (dall’inglese Temporary Autonomous Zone, zone temporaneamente autonome). La tattica socio-politica del creare temporaneamente degli spazi autogestiti al fine di eludere le strutture e le istituzioni formali imposte dal controllo sociale. Come i techno rave, party illegali, che frequentavo. Il suo saggio Utopia Pirata, dove parte dalle comunità utopiche del Seicento, dalla pirateria berbera, dall’isola di Tortuga per tracciare una teoria delle comunità insurrezionali. Il movimento, nato in Germania, manifesta il suo spirito per la prima volta durante il WTO di Seattle nel 1999. Un movimento rizomatico, come direbbe il filosofo Gilles Deleuze, altro autore che per primo introduce alcuni concetti. Ho letto Gilles Deleuze popfilosofo, consigliatomi da Francesca, che è un introduzione al suo pensiero. La parola viene da Mille Plateaux, il testo di culto del 1980 scritto con Félix Guattari. Il rizoma è un vegetale che cresce in orizzontale e sotto terra, l’equivalente botanico di internet. Gli hacker. Per creare una TAZ l’informazione è un concetto chiave, passante attraverso le crepe delle normali procedure istituzionali. Un’informazione permette la possibilità di dubitare del sistema ed è per questo che gli enti cercano di censurarla o di influenzarla. No Logo di Naomi Klein, grande inchiesta di controinformazione sul modello produttivo delle multinazionali. Noam Chomsky. Helena Velena, portavoce della cultura transgender, con il suo librettino: Il popolo di Seattle. Chi sono, cosa vogliono.
Durante tutto il percorso non avevo visto nessun rappresentante delle forze dell’ordine. Solo dopo un’ora erano arrivati. Mi ero messo a correre perché stavo nelle retrovie e mi avevano sorpreso. Distrazione rischiosa. Bisogna stare sempre all’erta in quei frangenti. “Correre! Correre! Correre!” “Dege! Dege! Di qua!” E girando in un vicolo abbiamo raggiunto lo Stadio Carlini, che era il punto di ritrovo dei manifestanti No Global. Dopo esserci dissetati e riposati abbiamo deciso di riprendere il nostro cammino. Fuori la situazione era tranquilla. Abbiamo percorso alcune stradine prima di arrivare in corso Europa che coinfluiva in corso Aldo Gastaldi a lato della ferrovia. Lì si stava svolgendo il grosso della manifestazione. C’era molta gente. In lontananza si vedevano i segni degli scontri. Il fumo dei fumogeni, barricate, i blindati delle forze dell’ordine e molta concitazione.
“Andiamo davanti!”
“Ancora?”
“Si! Si! Dai!”
Ero spinto dal mio spirito battagliero e dalla curiosità del reporter. Mi è sempre piaciuto osservare. Essere dove gli avvenimenti accadevano. Quando ero un bambino capitava di passare in prossimità di un incidente con la macchina. Mia mamma mi diceva di non guardare. E io sbirciavo sempre. Non avevo paura di essere impressionato. Volevo vedere.
“Su! Andiamo. Veloce!”
A passo sostenuto ci facciamo largo tra la moltitudine dei manifestanti per raggiungere la prima linea. Quando arriviamo nei pressi degli scontri mi accorgo che un gruppo di forze dell’ordine sta cercando di attaccare la manifestazione da una via laterale.
Mi ero preparato prima della manifestazione. Leggendo e parlando con il cugino di un mio amico che faceva parte di un centro sociale abbastanza combattivo. Mentre il grosso delle forze dell’ordine fronteggiava la manifestazione frontalmente, ad un certo punto un gruppo avrebbe cercato di tagliare lateralmente per isolare i più facinorosi e chiuderli tra due fronti. Bisognava stare attenti a non rimanere chiusi nella trappola senza avere vie di fuga. Sempre avere una via di fuga. Come nella vita.
Ma il blocco laterale non riesce a sfondare. Cercano di tagliare la manifestazione su corso Galvani da via Caffa. Io e Dege ci troviamo qualche metro più indietro e osserviamo la scena. La reazione dei manifestanti è veemente e le forze dell’ordine scappano in ritirata con i manifestanti a rincorrerli. Senza badare a Dege mi metto a correre lungo via Armenia, parallela di via Caffa, osservando tra le case la ritirata a gambe levate delle forze dell’ordine e l’avanzata furente dei manifestanti. Non c’erano Black Bloc. Ma le “tute bianche”, i “disobbedienti”. Gruppo di cui facevano parte molti centri sociali all’interno del movimento No Global, e il cui leader era Luca Casarini. Non mi è mai stato mai molto simpatico. E tanto meno le tute bianche.
Confluisco in Piazza Alimonda galvanizzato per questo successo e per aver visto scappare gli agenti con il loro abbigliamento anti sommossa in dotazione. Piazza Alimonda è completamente in mano ai dimostranti che prendono d’assalto tre jeep dei Carabinieri li parcheggiate. Due riescono a muoversi ma una rimane bloccata e attaccata dalla furia dei manifestanti. Sono eccitato. Un eccitazione fanciullesca. C’è molta agitazione.
Dal proseguimento di via Caffa che confluisce in Piazza Alimonda si presenta un plotone anti sommossa che inizia a sparare lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Sono completamente coinvolto dalla situazione. Raccolgo per la prima volta tre sassi e affronto le forze dell’ordine. Coraggio? Forse spericolato. Incosciente del pericolo. Sicuramente carico di adrenalina. Mi avvicino al blocco. Molto. Forse troppo. Vedo negli occhi gli agenti. E scaglio uno per uno i sassi. Ma sono scarso. Non colpisco nessuno. Ho sempre avuto una buona mira. Arretro deluso. Mi sposto dalla visione degli agenti.
Bang! Bang!
Sento nitidamente due spari. Non sembra il rumore della pistola spara lacrimogeni. Mi accuccio dietro una macchina parcheggiata. Anche per respirare. Poi ritorno al centro della piazza. C’è un ragazzo steso per terra proprio davanti al plotone delle forze dell’ordine asseragliate. Mi avvicino al ragazzo. Ha un buco sulla fronte. Il sangue zampilla. Il suo volto è coperto da un passamontagna. Non capisco bene l’entità della ferita. Ma capisco però che è un foro. Da un taglio il sangue non esce come se sgorgasse da una fontanella. Sulla fronte, appena sopra gli occhi. Almeno in un primo momento.
Di istinto mi giro verso le forze dell’ordine e alzo le mani. Come per dire “arimo”. È una parola che usavamo da bambini nell’Italia del nord ovest per interrompere il gioco. Che si trattasse di una partita di calcio per strada o di nascondino. Probabilmente in quel momento mi rendo conto che non era un gioco. Un’agente a pochi metri di distanza spara un lacrimogeno guardando verso di me. Passa a circa un metro e mezzo a sinistra della mia testa. Mi sposto dal centro. Continuo a tenere le braccia alzate come per dire di fermarsi che qualcuno si è fatto male.
La piazza si dirada. Il plotone avanza e circonda il corpo del ragazzo steso a terra. Mi allontano. Ma non scappo. La piazza è ormai deserta. Voglio continuare ad osservare. Cosa è successo? Cosa su succederà? “Dai! Andiamo!” Sento in lontananza la voce di Dege che mi chiama. Ma è un suono lontano. Una voce flebile a cui non faccio caso. Le mie orecchie sono ovattate. Mi ritrovo isolato nella piazza. Almeno così mi sembra. Mi sento troppo osservato. Non è sicuro rimanere lì.
Sul lato sinistro della piazza c’è una stradina. La imbocco. È libera. È una parallela di via Caffa. Giro a destra in via Teodosia. E mi ritrovo nelle retrovie del plotone di assalto. Alcuni si stanno dissetando. Altri vengono medicati per piccole ferite. Mi rendo conto di essere osservato da occhi iniettati di odio. Mi spavento. E allungo il passo lungo via Teodosia. Guardingo. Ogni tanto mi giro per paura che qualcuno mi segua. Fortunatamente nessuno.
In fondo a via Teodosia giro a destra in via Giuseppe Carageris. Mi ritrovo in via Giovanni Tommaso Invrea che verso destra riporta in piazza Alimonda. Vedo un gruppo di persone che sembrano giornalisti che si sta avviando verso il luogo dell’accaduto. Mi avvicino a loro per non dare troppo nell’occhio e sentirmi più protetto. Mentre cammino mi viene in mente di chiamare Franco. Un caro amico. Volontario al Genova Social Forum. Ospita me, alcuni miei amici da Milano e alcuni suoi amici dell’università di Siena dove frequenta Scienze della Comunicazione, nella casa della sua famiglia a Nervi.
“Ciao!”
“Ciao Franco! Hai sentito cosa è successo?”
“No!”
“È morto un ragazzo. Credo gli abbiano sparato le forze dell’ordine”.
“Che cazzo dici?”
“Ero lì. L’ho visto con i miei occhi. Ha un buco in fronte”.
“Noooo! Dove è successo?”
“In piazza Alimonda. Sto tornando lì dopo che mi sono allontanato per sicurezza”.
“Ma tu eri lì?”
“Si! Ma non ho visto il momento. Ho sentito gli spari. E poi mi sono avvicinato al corpo”.
“Cazzo!”
Momento di silenzio. Sospiro. Respiro. Non lo so.
“Posso dare il tuo numero alla radio del Genova Social Forum così ti chiamano?”
“Ok!”
“Va bene! Ci sentiamo dopo!”
“Ciao!”
“Ciao!”
Ormai sono tornato in Piazza Alimonda. I Carabinieri hanno circondato il corpo. È coperto da un telo bianco. La piazza si sta riempiendo. “Assassini! Assassini!” Le persone cominciano a gridare. Qualcuno piange. Mi chiama la radio del Genova Social Forum. Mi chiede se in diretta mi va di spiegare quello che è successo. “Ok! Non c’è problema”. Non l’avevo mai fatto. Sono timido. Anche quando da ragazzino facevo teatro all’oratorio, ero impacciato. Gli spettatori mi mettevano in soggezione. Sarà stata l’adrenalina. Ho la voglia di raccontare. Di testimoniare. Non ci penso. E racconto in diretta quello che ho visto. Quel ragazzo steso per terra con un foro in fronte da cui zampillava sangue.
Ormai in piazza iniziano a arrivare le televisioni. Sento la gente vociferare. L’hanno ucciso. È stato un sasso. Sono stati i carabinieri. Sono stati i manifestanti. Sono freddo. Gelido. Non sento niente. Mi guardo intorno. Io c’ero. Non sono scappato. Chi sono questi? Decido che devo raccontare quello che ho visto. Vado io stesso verso le telecamere. Un sasso? Ma che cazzo dite? Cosa ne sapete? Dove eravate? Era una guerra. Tra ragazzi in maglietta armati di quello che trovavano per terra, contro agenti con un abbigliamento anti sommossa adeguato, armati di manganelli, lacrimogeni e armi con proiettili. E i ragazzi stavano vincendo. E non spari in faccia ad un ragazzo. Se sei un uomo. Spari in aria. Sono incazzato. Sono confuso. Un sasso?
La prima televisione è un emittente locale. Mi ricordo. Poi non ricordo. Una volta tornato a Milano varie persone mi hanno detto che mi avevano visto su vari telegiornali. Ma io non ho mai cercato di rivedere quelle interviste. Fino a quando, un giorno, una mia amica mi manda il documentario La Trappola, voluto e prodotto a partire dal 2006 – e arricchito nel corso degli anni, man mano che si acquisiva nuovo materiale – dal Comitato Piazza Carlo Giuliani e diretto da Bruno Luverà, inviato del Tg1 durante il G8 e vincitore del premio giornalistico Saint Vincent 2002 per la sua inchiesta sulle violenze a opera delle forze dell’ordine. Ad un certo punto c’è una mia intervista. E per la prima volta dopo anni mi vedo. Dal minuto 46:51 al minuto 47:36.
Un ragazzo spagnolo? Dopo varie interviste mi accorgo che si forma un capannello di persone, alcuni con magliette del Genova Social Forum. Mi avvicino. Ascolto. Ci sono avvocati del Genova Social Forum che stanno cercando testimoni. Mi faccio avanti. “Io c’ero. Sono disposto a testimoniare”. Insieme a me una ragazza tedesca fotografa e un ragazzo francese. O viceversa. Non ricordo bene. Ma gli altri? Dove sono?
Ci spiegano le varie procedure. Non dobbiamo preoccuparci. Siamo tutelati. Saliamo su due macchine della polizia insieme agli avvocati e ci avviamo verso la procura. Io ho un chiaro abbigliamento da Black Bloc. Maglietta nera e la mia inseparabile cuffietta nera. Un’altra maglietta, grigia, intorno al collo: la usavo per proteggermi dal fumo dei lagrimogeni. Zainetto in cui ripongo un maschera trovata per strada che usavo per proteggere gli occhi. Per arrivare in procura superiamo la linea rossa – la fantomatica linea rossa, l’obiettivo, il limite invalicabile.
Quando scendiamo dalla macchina intorno a noi ci sono solo agenti. Perlopiù con abiti civili. Non in divisa. C’è indifferenza. Qualcuno mi guarda male. Gli agenti in borghese che ci hanno accompagnato, ci scortano all’interno del palazzo di giustizia. Sono il terzo ad essere interrogato dal procuratore. Nell’attesa passo il tempo a chiacchierare con il poliziotto che mi tiene in custodia. È una persona gentile. Che comprende. E ha idee simili alle mie su quanto accaduto. Non sarebbe dovuto succedere.
È il mio turno. Il procuratore è nervoso. Inizia incalzante a farmi domande. Perché ero lì? Cosa stava succedendo? Cosa ho visto? E così via. Poi diventa ancora più insistente. Vuole dettagli sull’accaduto. Su quello che stava accadendo intorno alla jeep. Vuole sapere come è morto Carlo Giuliani. Per la prima volta sento il nome del ragazzo ucciso. Mi ripete le domande più volte. Sono un po’ a disagio. Io non ho visto bene quello che stava accadendo intorno alla jeep. Certo, mi sono accorto che era circondata da manifestanti che la stavano aggredendo. E ho anche pensato che i carabinieri all’interno fossero in una situazione di merda. Ma io ero concentrato sul plotone che da via Caffa si affacciava su piazza Alimonda. La jeep era alla mia destra. Quando mi sono trovato nelle condizioni di ripararmi per riprendere fiato o bagnarmi gli occhi causa i lacrimogeni sono passato nei pressi della jeep. Prestando poca attenzione perché mi bruciavano gli occhi o la gola. Quindi non avevo risposte sulle domande relative a gli eventi che avevano portato alla morte di Carlo. La mia testimonianza la ritenevo importante perché avevo sentito il rumore degli spari e avevo visto da vicino il foro sulla fronte di Carlo. Volevo portare la mia testimonianza relativa al fatto che non era stato un sasso.
Il procuratore è molto indisposto nei miei confronti. Non ho un atteggiamento maleducato. Semplicemente non ho le risposte alle domande che mi sottopone per capire cosa era accaduto e cosa aveva causato una morte. In quel momento un po’ concitato arrivano via fax le tre foto diventate famose: in una si vede il carabiniere nella jeep puntare la pistola di ordinanza verso Carlo Giuliani che ha in mano un estintore. Nella seconda si vede la jeep che arrota il corpo di Carlo Giuliani. Non conoscevo il termine “arrotare” legato a questo contesto. Leggendo sul vocabolario Treccani il primo significato è “affilare una lama”, da cui “l’arrotino”. Il secondo significato è urtare con le ruote, e per estens. investire con un veicolo: perché potesse passare senza arrotar piedi (Manzoni). L’ho sentito in un’intercettazione che è presente nel documentario La Trappola. 22 minuti dopo l’uccisione di Carlo. Il tenente colonnello Truglio dell’arma dei Carabinieri, chiamava la Centrale. È la prima telefonata tra in cui si comunica la morte di un ragazzo. Parlando con il comandante per spiegare la situazione dice “…questo qui è stato arrotato da una nostra campagnola…”. Nella terza foto si vede la jeep dei Carabinieri che se ne va, lasciando disteso a terra il corpo di Carlo. Come il tenente colonnello Truglio riferisce al comandante.
Sono uno dei primi che si trova davanti a quelle foto. E capisco cosa è successo. “Vede! La sua deposizione non serve a un cazzo!” Il procurarotore stava parlando con me mentre io osservavo intensamente le foto. “Questa è la sua deposizione. Vuole firmarla?” “Certo! Questo è quello che ho visto io”. E ho firmato. Non mi ricordo che ore fossero. Due carabinieri in borghese mi hanno accompagnato fino a piazzale John Fitzgerald Kennedy. Mi hanno salutato gentilmente. E congedandosi mi hanno consigliato bonariamente di stare attento. Di non girare per la città. Capivo cosa intendevano. Li ho ringraziati e salutati. Ero molto stanco. Provato. Il cellulare era scarico. Dovevo tornare a Nervi.
Ho deciso di raggiungere il Genova Social Forum per cercare Franco. Ho camminato mezz’ora. Lì non si parlava d’altro, e Franco non c’era. Forse era andato a casa. Ho chiesto come fare per tornare a Nervi. “Devi andare verso di là”. E con la mano mi ha indicato la direzione. “Non è vicino. Sarà a 10-15 chilometri”. Mi sono messo in cammino. Costeggiando il mare prima o poi ci sarei arrivato. Il mio abbigliamento dava un po’ nell’occhio: l’unica cosa che potevo fare era togliermi la maglietta nera e indossare quella grigia. Avevo capito che la polizia e la Digos sarebbero stare in giro a cercare manifestanti. Era meglio non fare autostop, troppo rischioso. E comunque non c’era nessuno in giro, passavano poche macchine. Quando sentivo il rumore di un’auto cercavo di non dare nell’occhio. A volte mi nascondevo. Camminavo e camminavo. Cercavo di mantenere un’andatura sostenuta. Ma ero distrutto.
Mi facevano male le gambe. Avevano camminato molto quel giorno. Avanzavo per inerzia, non sapevo che ore fossero. Stavo camminando da ore. Alla fine, esausto, ho deciso di faer l’autostop. Ho steso il braccio facendo il segno con il pollice. La prima macchina non si è fermata. La seconda sì, erano due ragazzi.
“Dove devi andare?”
“Nervi”
“Ok, andiamo da quella parte. Cinque minuti e ci siamo, macherà un chilometro circa”.
Avevo camminato per 10 chilometri.
“Scusa sai che ore sono?”
“L’una”.
Non mi fanno domande. Parlano tra di loro.
“Dove ti devo lasciare?”
“Lasciami vicino al centro. Grazie”.
Non sapevo dov’era esattamente casa di Franco. La sapevo ricoscere. Mi hanno lasciato in prossimità di un parco. Il centro non era distante. Ho sentito voci in lontananza. Schiamazzi. Era una strada alberata che porta verso il mare. Man mano che mi avvicinavo, capivo di chi erano le voci. I miei amici di Milano giocavano con un pallone. “Dove eri finito. Ti avevamo dato per disperso”. Mi passano una canna. Ero contento, ce l’avevo fatta.
Cicatrici sulla pelle. Più profonde di quelle che ho adesso. Ma non come merito. Solo come emozione. Sensazione. L’odore acre dell’aria. Il rumore costante e assordante di sirene o elicotteri. La solidarietà di molti cittadini. I cingolati dei corpi speciali che passano davanti al Genova Social Forum mostrando il dito medio alzato la sera del massacro alla scuola Diaz. Cioè il giorno dopo la morte di Carlo. Gli occhi che bruciavano causa i lacrimogeni. La rabbia. I respiri. I sospiri. Il battito del cuore. Ma nessuna lacrima. Se non le righe bagnate sul viso quando una mattina di alcuni anni dopo ho scoperto che Franco era morto.
(Io sono presente nella foto pubblicata in seconda pagina dal Corriere della sera del 21 luglio 2001, a pochi metri di distanza dal corpo di Carlo Giuliani. Sono presente nei servizi di diversi telegiornali dove vengo intervistato e racconto per primo che Carlo Giuliani non era stato ucciso da una pietra ma da un proiettile. Sono presente nel documentario La Trappola. Ma non sono presente in nessun articolo, descrizione, racconto, blog, documentario che parli del G8 di Genova).
“Radicale come coloro che trovano conforto nei panni degli eterni sconfitti, mantiene un’infantile, donchisciottesca infatuazione per la verità”
RIP Franco Verderi
Un amico meraviglioso
14 luglio 1974-7 luglio 2009