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Il Senato ha detto no alla parità di genere nel linguaggio istituzionale

Con scrutinio a voto segreto, è stato bocciato l'emendamento che avrebbe introdotto "un linguaggio inclusivo“ all'interno degli atti ufficiali

Foto di Massimo Di Vita/Archivio Massimo Di Vita/Mondadori Portfolio via Getty Images

Ancora una volta la politica italiana ha voluto dare un messaggio forte e chiaro: non siamo pronti per un linguaggio inclusivo.

Nella giornata di ieri infatti il Senato ha respinto una proposta della senatrice Alessandra Maiorino del Movimento 5 Stelle che puntava a introdurre «l’utilizzo di un linguaggio inclusivo» nel linguaggio istituzionale.

Il voto, avvenuto – naturalmente – a scrutinio segreto concesso dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati su richiesta di Fratelli D’Italia, ha ottenuto 152 favorevoli, 60 contrari e 16 astenuti. Per essere approvato avrebbe dovuto raggiungere quota 161.

L’emendamento prevedeva che il «Consiglio di presidenza stabilisce i criteri generali affinché nella comunicazione istituzionale e nell’attività dell’amministrazione sia assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l’adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l’utilizzo di un unico genere nell’identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne». Per farla semplice, con questa proposta si sarebbero potuti utilizzare, all’interno degli atti ufficiali, «formule e terminologie» (parole come «senatrici» o «presidentessa, per intenderci) per evitare di connotare ruoli e funzioni al maschile e femminile.

Le risposte dai partiti non si sono fatte attendere. Il PD lo ha definito un fatto «gravissimo», con Laura Boldrini che ha parlato di «colpo basso inferto alle donne dal partito di Meloni». Il M5S l’ha definita «una grande occasione persa» e un segnale di «evidente misoginia di chi ha votato contro» in riferimento alla coalizione di destra e, in particolare, a Fratelli D’Italia. Lucio Malan di FDI ha invece difeso la scelta del suo partito, arrivando a parlare di «norme-manifesto ideologiche da campagna elettorale».

L’emendamento, ad ogni modo, non imponeva obblighi, ma apriva da una possibilità di scelta nel linguaggio che – ad oggi – non esiste. Il Senato ha però deciso: per il nostro Paese, la parità di genere è ancora un tabù da osteggiare. Nel 2022.

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