La prima cosa da dire è che chiunque decida di candidarsi a un ruolo più rilevante di quello di capo condomino dovrebbe sempre preoccuparsi delle eventuali stupidaggini che in passato può aver scritto sui social network.
È la prima, e più importante, regola del fight club: Beppe Grillo ci aveva avvisato più di dieci anni fa, in fondo, e dovremmo ormai aver capito benissimo che «il web non dimentica». Così, quando la settimana scorsa il 29enne capolista del Pd in Basilicata Raffaele La Regina è stato travolto dalle polemiche per alcuni vecchi Tweet contro Israele, il Tap, addirittura Mattarella, prima ancora che che il merito della vicenda è apparso lampante il grave errore di metodo alla base. È possibile che un ragazzo nato e cresciuto nell’epoca dei social network e negli ambientini poco raccomandabili della politica politicante non abbia capito come funziona il gioco dei grandi?
Ecco, fatta questa dovuta premessa, l’averlo convinto a ritirarsi è stato un errore. Per vari motivi: il primo è che cedendo su uno, poi si è ovviamente scatenata la valanga. Eliminato La Regina, infatti, i cacciatori di vecchi Tweet si sono concentrati sulla 25enne capolista in Veneto Rachele Scarpa, che pure aveva scritto in maniera assai critica sulle politiche israeliane e infine su Marco Sarracino, colpevole di aver fatto un post su Instagram in cui celebrava la data della Rivoluzione d’Ottobre.
Polemiche evidentemente strumentali: nella maggior parte dei casi si trattava di battute (certo non classici della risata, ma niente di troppo grave), in altri erano banali prese di posizione. La cosa più divertente – o avvilente, dipende dai punti di vista – è stata l’accorata (e non richiesta) difesa di Israele da parte di vari esponenti politici: come se a Gerusalemme fossero tutti preoccupati del parere di due ragazzi italiani, come se davvero ancora possiamo permetterci di confondere le critiche al governo di quel paese con l’antisemitismo, come se davvero il Pd fosse un covo di gente che ce l’ha con gli ebrei. In quest’ultimo caso verrebbe da chiedersi cosa ci sarebbe da pensare di vecchi leader apertamente filo-arabi con Giulio Andreotti e Bettino Craxi, oppure, più in là, di gente estremamente critica verso Israele come l’ex presidente Usa Jimmy Carter.
Capitolo a parte meritano certi oscuri personaggi che apparentemente esistono solo su Twitter e che hanno passato almeno tre giorni a spulciare i social altrui alla ricerca della battuta sbagliata, dell’uscita inopportuna, della frasetta infelice. È il caso, ad esempio, del docente universitario Riccardo Puglisi, che ha impiegato il suo weekend a portare avanti il gioco al massacro e alla fine ha confessato di averlo fatto per «vendicarsi politicamente» di Peppe Provenzano del Pd, che lo aveva criticato la sua nomina a consulente di Palazzo Chigi.
Avevo annunciato che mi sarei vendicato POLITICAMENTE contro @peppeprovenzano.
Lo sto facendo.
Lo spostamento del @pdnetwork sempre più a sinistra è un processo che va evidenziato con forza, a partire dall'analisi delle candidature paracadutate dall'alto.
— Riccardo Puglisi (@ricpuglisi) August 21, 2022
Il punto, tuttavia, non è questo: la tormenta che si è abbattuta sui candidati «under 35» scelti da Letta aveva in tutta evidenza il sapore marcio della polemica da quattro soldi, eppure c’è cascata un sacco di gente che pure si direbbe del mestiere. La prova provata di quanto poi si trattasse di un accanimento privo di buonafede risiede nella diversa considerazione che, negli stessi giorni, hanno avuto le scoperte (o riscoperte) delle malefatte non solo social di diversi candidati della coalizione di destra: dal candidato di Fratelli d’Italia Guido Castelli col braccio teso di fronte alla cripta di Mussolini ad Armando Siri della Lega che se la prese con Zuckerberg perché «Meta in ebraico significa morte», dall’altro fratello d’Italia Galeazzo Bignami che si faceva fotografare in divisa da SS a decine – letteralmente decine – di nostalgici del Ventennio sparsi qua e là nelle varie liste.
Il vero punto, dunque, non riguarda il tema in sé, ma il suo trattamento. E ancora una volta porta in zone sin troppo note del nostro stagnante dibattito politico: a pagare gran parte del conto sono stati i candidati più giovani, mentre quelli più in là con gli anni, o più esperti che dir si voglia, vengono puntualmente perdonati: «Che volete farci, sono fatti così…», si dice perché, in fondo, nell’ambiente ci si conosce tutti.
Nel caso di La Regina gran parte dei commentatori ha dimostrato di non sapere cosa sia un meme e di come funzioni la satira sui social: in teoria non sarebbe niente di troppo complesso – è il solito estremizzare una posizione per evidenziarne le contraddizioni –, ma a questo punto è lecito sospettare che sia un problema di gap generazionale.
Del resto c’è un motivo se gli under 40 che leggono i giornali sono una ridottissima minoranza. Lo stesso discorso, purtroppo, vale anche con le elezioni: più si sale con l’età e più diminuisce la percentuale di astenuti. Questo fa sì che le forze politiche, al di là dei solenni proclami, tendano sempre a cercare consensi là dove ci sono (tra gli anziani) e ignorano il mondo di chi non vota (i giovani). La vicenda delle candidature dei famosi «under 35» di Letta, in fondo, ci dice questo: loro si possono massacrare, tanto a difenderli al massimo c’è qualche pagina di Facebook, per gli altri invece vale il discorso che «non bisogna demonizzare l’avversario», per carità.
E mentre la campagna elettorale procede sui binari delle polemiche social, di programmi non se ne parla se non per slogan, mentre i volti dei candidati nei collegi uninominali sono sempre gli stessi degli ultimi vent’anni e, comunque andranno a finire le cose, permane la sensazione che nessuno abbia davvero voglia di smuovere un paese che continua a fingersi morto.