La visita in Giappone e Corea del Sud del presidente statunitense Joe Biden doveva essere un’occasione per rinvigorire i rapporti coi due storici alleati di Washington in Asia orientale. Dopo che il conflitto in Ucraina ha sconvolto gli equilibri internazionali portando numerosi paesi a dover mettere in discussione le proprie valutazioni strategiche, gli Stati Uniti intendevano dimostrare a tutta la comunità internazionale la solidità degli impegni presi verso gli alleati. Durante la visita, iniziata a Seul venerdì e conclusasi ieri a Tokyo, la sicurezza degli alleati è stata una dei temi centrali negli incontri tra i leader. Biden ha riconfermato esplicitamente l’impegno statunitense a difendere Giappone e Corea del Sud contro possibili minacce esterne. Lunedì però Biden ha fornito rassicurazioni sulla sicurezza anche di un terzo Stato, con il quale però Washington non ha alcun trattato di alleanza in essere.
Durante una conferenza stampa congiunta col primo ministro giapponese, una giornalista ha chiesto a Biden se fosse disposto a «impegnarsi militarmente per difendere Taiwan se le circostanze lo richiedessero». La replica di Biden, immediatamente ripresa da tutti i media, è stata «Sì, questo è l’impegno che ci siamo presi». Sul senso della risposta non c’è stato alcun dubbio: se la Cina dovesse invadere Taiwan, gli Stati Uniti interverrebbero in sua difesa.
La posizione di Taiwan nella comunità internazionale è assolutamente unica nel suo genere e la sua sopravvivenza è legata alla voluta ambiguità di cosa voglia dire essere la Repubblica di Cina, questo il nome ufficiale con cui è nota Taiwan. La Repubblica Popolare Cinese considera l’isola come una provincia ribelle della Cina su cui tuttavia non è mai riuscita a estendere la propria autorità dopo la fine della guerra civile, che di fatto è rimasta congelata dal 1949 fino a oggi. Pechino, perciò, pretende che qualsiasi paese riconosca la Repubblica Popolare come il governo legittimo della Cina non possa riconoscere anche Taiwan, poiché secondo Pechino essa è parte della Cina stessa. Da quando sono stati stabiliti rapporti diplomatici con la Repubblica Popolare negli anni ’70 gli Stati Uniti hanno adottato la politica dell’Unica Cina, secondo la quale il governo di Pechino è quello internazionalmente riconosciuto ma allo stesso tempo questo riconoscimento non impedisce a Washington di intrattenere rapporti informali con Taiwan. Anzi, con il Taiwan Relations Act approvato dal Congresso nel 1979, gli Stati Uniti si sono impegnati a preservare la stabilità nello stretto che divide Taiwan dalla Cina continentale attraverso la vendita di armi difensive per dissuadere un’azione di forza cinese.
Washington però per decenni ha mantenuto una politica di “ambiguità strategica” riguardo il proprio impegno nello stretto. Da un lato non esistono garanzie formali da parte di Washington sulla sicurezza di Taiwan in caso di invasione cinese, un’eventualità che Pechino minaccia nel caso in cui l’isola dichiarasse l’indipendenza formale dalla Cina (che invece dice di perseguire la riunificazione pacifica), dall’altro il dichiarato interesse statunitense per il mantenimento dello status quo nello stretto è stato un deterrente sufficiente ad alterare i calcoli militari di Pechino riguardo un possibile attacco dell’isola. Da quando Tsai Ing-wen (che appartiene al partito pro-indipendenza) è stata eletta presidente di Taiwan nel 2016 però l’ambiguità strategica statunitense è entrata in crisi, messa in discussione dalla crescente muscolarità della politica cinese e dalla rinnovata vocazione asiatica della politica estera statunitense.
Continuando la risposta, lunedì Biden ha detto: «Noi rispettiamo la politica dell’Unica Cina e tutti gli accordi che dipendono da essa, ma l’idea che (Taiwan) possa essere presa con la forza non è opportuna, perché scardinerebbe l’intera regione e sarebbe un’altra azione simile a quello che è successo in Ucraina». Il parallelismo Ucraina-Taiwan, sebbene controverso e imperfetto, è stato nella mente di tutti gli analisti quando la Russia ha iniziato l’invasione. Gli Stati Uniti non intendono permettere che Taiwan, che negli anni si è rivelata un partner sempre più importante per Washington, possa essere conquistata con la forza da Pechino. I motivi sono numerosi: Taiwan, oltre ad essere una democrazia che rispetta e promuove i diritti umani, è anche una potenza tecnologica indispensabile col suo primato globale nella produzione di semiconduttori. C’è poi anche un calcolo di realpolitik non trascurabile: dato che gli Stati Uniti hanno individuato nella Cina il proprio principale rivale, sostenere Taiwan è anche un modo per ostacolare le ambizioni di Pechino.
I funzionari della Casa Bianca si sono affrettati lunedì stesso a ritrattare le dichiarazioni di Biden, affermando che esse non rappresentano un cambio della politica ufficiale degli Stati Uniti riguardo a Taiwan. Una gaffe, in sostanza. Eppure non sarebbe la prima da parte del presidente, che a ottobre scorso aveva detto una cosa molto simile e in agosto aveva menzionato Taiwan nell’elenco dei propri alleati. Secondo molti osservatori, queste dichiarazioni che deviano dal dizionario standard della diplomazia statunitense contribuiscono a rendere l’ambiguità strategica un po’ meno ambigua.
Il commento di Biden poi si inserisce in una crescente propensione di Washington a segnalare il proprio sostegno per Taiwan. A partire dall’estate scorsa dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani e ancor più dopo l’inizio dell’invasione russa, questa tendenza ha subito una netta accelerazione. Non solo alcuni funzionari statunitensi hanno rivelato che da almeno un anno sull’isola sono tacitamente presenti dei marines in veste di addestratori militari, ma negli ultimi mesi si sono anche intensificate le visite dei parlamentari statunitensi. La stessa Nancy Pelosi, a capo dei democratici, aveva annunciato l’intenzione di recarsi a Taiwan. Sono segnali che vogliono dimostrare l’impegno di Washington verso l’isola, il cui orizzonte strategico si è fatto molto più incerto dopo gli eventi afghani e ucraini dell’ultimo anno.
Da Taipei è d’accordo Lorenzo Lamperti, direttore editoriale di China Files, che sottolinea come la cosiddetta ambiguità strategica sia in fase di ridiscussione almeno dal 2016. «La novità portata dall’amministrazione Biden è quella di esplicitare fatti o intendimenti noti (come nel caso della presenza di consiglieri militari) che prima restavano impliciti», dice Lamperti. Lo stesso può dirsi per il commento di lunedì. La determinazione statunitense a mantenere lo status quo si è spesso abbinata all’impressione che Washington si sarebbe opposta all’uso della forza unilaterale da parte della Cina, senza però lasciare spazio ad alcuna garanzia esplicita sulla sicurezza di Taiwan. Ciò che le gaffe e le smentite di rito degli ultimi mesi fanno è rafforzare la percezione che sotto il non detto ufficiale e le volute ambiguità, che pur darebbero e hanno dato spazio a molteplici interpretazioni, si stia formalizzando a Washington un nuovo consenso sulla necessità di uscire maggiormente allo scoperto. Per rassicurare Taiwan e per rendere chiaro alla Cina quale sarebbe il costo di un’invasione. Come dice Lamperti, «l’ambiguità viene superata prima nella realtà che sulla carta».