Ieri sera Giuseppe Conte ha annunciato che tutta l’Italia è diventata zona protetta, e che i provvedimenti presi per le famose zone rosse saranno estesi a tutto il paese. Il claim di questo provvedimento contenitivo è piuttosto secco: Io resto a casa.
Nel suo discorso Conte ha affrontato il problema sottolineando fortemente un punto: limitare le possibilità di contagio fa parte della responsabilità comune, ma si adopera anche attraverso quella individuale – quindi adesso siamo tutti invitati a contenere il più possibile la vita sociale. In questo nuovo clima di responsabilità individuale, però, ci sono alcune zone grigie. Come ad esempio quella lavorativa: per quanto possano limitare al massimo i contatti sociali in ambito privato, ci sono milioni di persone non possono permettersi di non andare al lavoro.
Gli effetti che questa emergenza sta avendo sull’economia sono già noti, e da qualche settimana si sta cercando di trovare un compromesso, il più logico possibile, fra la necessità di contenere il contagio, e quella di non affossare l’impianto economico del paese. Si è, ad esempio, molto parlato di “smart working” e molti lavoratori dipendenti, specialmente nel lavoro d’ufficio o amministrativo, hanno potuto optare per questa scelta. C’è però una fetta enorme di persone che fanno lavori per cui questo non è possibile – gli operai degli impianti produttivi, ad esempio – e che rischiano di contagiare (o di essere contagiati da) i colleghi perché non esistono precise direttive su cosa fare.
Già nei primi giorni della quarantena di Codogno avevamo assistito a forme di mediazione per mantenere aperti alcuni stabilimenti, la cui inattività rischiava di bloccare interi settori industriali: un corpo dipendenti selezionato, mascherina obbligatoria per tutti, distanze di sicurezza, e ogni sistema di areazione spento. Ma adesso che il decreto è esteso a tutto il paese, la lacuna si fa ancora più evidente, e molti luoghi di lavoro non sono attrezzati per mantenere attiva la produttività.
Questa mattina a Piacenza, ad esempio, i lavoratori della BRT (sede di Caorso) hanno proclamato lo “stato di agitazione”. Gli operai hanno interrotto l’attività, preoccupati dalla condizioni sanitarie, e sono usciti nel piazzale dello stabilimento per protestare. “Non ci sentiamo protetti”, sostiene in un video pubblicato sui social il delegato sindacale USB dell’azienda. “Ci manca tutto praticamente: il magazzino non è sanificato, i mezzi non sono sanificati, non abbiamo l’attrezzatura giusta per andare a lavorare. (…) Sono finite le mascherine, di guanti ce ne danno un paio al giorno, i gel igienizzanti non ci sono”.
#Caorso, #Piacenza: i lavoratori della #BRT proclamano lo "stato di agitazione".
Nessuna sanificazione dei locali, mascherine insufficienti. Insomma, la salute non è tutelata adeguatamente.
L'emergenza #coronavirus non la devono pagare i lavoratori.
L'azienda agisca subito. pic.twitter.com/wZ3umVvvc3— Giuliano Granato (@Giul_Granato) March 10, 2020
Il decreto, riguardo alla questione lavoro, non fornisce delle risposte precise a questo problema: si prefigura solo la possibile fruizione di congedi e di ferie. Come si legge nel testo firmato lo scorso 8 marzo per la zona arancione, che verrà esteso a tutto il paese, “si raccomanda ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie”.
La soluzione per chi non si sente tutelato sul luogo di lavoro insomma è solo una: prendere ferie. E visto che non si sa quanto durerà l’emergenza e anche in termini di provvedimenti si naviga a vista, molti rischiano di esaurire tutte le ferie pagate di cui dispongono. In breve, la coperta è sempre più corta: da un lato salvaguardare la salute pubblica, dall’altro evitare il collasso economico.