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Israele si ritira dal sud di Gaza. E adesso?

Il termine “ritiro” è in realtà fuorviante, visto che la posizione di Netanyahu resta chiara: «La guerra continua». Dovrebbe solo cambiare l’obiettivo. E il conflitto potrebbe addirittura inasprirsi

Foto: Noam Galai/Getty Images

Già il termine “ritiro”, che in queste ore è praticamente ovunque, è fuorviante, se letto nell’insieme complessivo delle operazioni di guerra. È vero, com’è stato annunciato tra sabato e domenica, che Israele ha di fatto portato via le proprie truppe dalla zona di Khan Yunis, a sud di Gaza, dopo sei mesi di combattimenti. Certo non è un ritiro completo, restano poche migliaia di truppe con funzioni pressoché di controllo e amministrazione, ma il conflitto in quel punto è effettivamente finito; gli abitanti sono tornati alle loro case, ovviamente devastate, e Israele ha giustificato la scelta dicendo di aver sconfitto gli ultimi combattenti di Hamas presenti su quel territorio. In sintesi: i terroristi non ci sono più, non ha più senso rimanere lì.

Appunto: lì. La versione ufficiale si ferma a questo punto, senza indicazioni sul futuro. L’unica certezza, anche secondo Netanyahu, è che questo ritiro ha tutt’altro che un valore “pacificatore”: «La guerra continua». E potrebbe anche essere con gli stessi metodi che abbiamo visto finora. La “buona notizia”, se così si può intendere, è per i civili, che a costo di sobbarcarsi l’ennesimo trasferimento all’interno del Paese, adesso, passando a sud, potrebbero trovare un riparo in attesa delle prossime operazioni. Che, intendiamoci di nuovo, ci saranno.

Sul piatto ci sono varie ipotesi, gli analisti di tutto il mondo stanno cercando di capire quali possano essere le vere intenzioni di Israele e cosa ci sia dietro un annuncio del genere, più scenico che altro. Non è chiaro. Da una parte, può essere un modo – rigorosamente di facciata – per accontentare le richieste degli Stati Uniti, che da settimane chiedono di allentare la presa sui civili, incontrando però l’ostilità di Israele. In questo caso, la guerra continuerebbe a nord con «operazioni mirate», cioè degli interventi specifici per colpire i nuclei terroristici, risparmiando i civili, come invocato da Biden. Si capisce che è un piano di per sé difficile, ma un impegno a fare degli attacchi più mirati da parte di Israele – gli ultimi si sono rivelati un bagno di sangue – potrebbe esserci, anche solo per non farsi più dei nemici nella comunità internazionale. Più improbabile è l’ipotesi di un cessate il fuoco nei prossimi giorni, per le feste religiose in corso a Gaza, che da domani chiudono il ramadan.

Di contro, un’idea invece accreditata è quella tutt’altro che pacifica di un attacco violento a Rafah, l’unica città della striscia di Gaza a non essere stata occupata dall’esercito di Israele: lì ci sono più di un milione di rifugiati, e da settimane Netanyahu sta aspettando il via libera del suo governo per sferrare l’attacco decisivo. Biden gli ha fatto sapere di non gradire neanche questa opzione, ma i funzionari dell’esercito dicono che resta comunque un obiettivo primario, per cui questa sorta di ritiro potrebbe essere un modo per riorganizzare l’esercito per la nuova offensiva. Chiaramente, una svolta del genere è in contrasto con la politica di relativa pacificazione – i segnali sono sempre in contrasto, qui – che per certi versi Israele pare abbia cominciato a voler portare avanti, non tanto con il ritiro quanto con l’apertura ai primi aiuti umanitari, e che dall’altro lato potrebbe condurre alla liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Si vedrà.

Infine, per molti (ne scrive La Stampa oggi, tra i tanti) c’è più che altro da allargare il quadro del conflitto, andare insomma oltre Gaza, e neanche qui la prospettiva è serena. I servizi segreti degli Stati Uniti sono convinti che, dopo il raid israeliano sul consolato iraniano a Damasco, ora l’Iran stia preparando una sorta di grande rappresaglia per colpire postazioni militari di Israele e Stati Uniti. E d’altronde lo stesso Netanyahu ha già detto di «essere pronto» a respingere qualsiasi attacco (che nel linguaggio diplomatico, più che un invito a desistere, è uno ad avanzare), dopo aver indicato proprio Teheran tra i finanziatori di Hamas. In questo senso, il ritiro delle truppe potrebbe servire a sedare le tensioni con l’America, per averla stabilmente al proprio fianco in un conflitto che, a questo punto, potrebbe anche essere più violento e pericoloso di quello degli ultimi sei mesi a Gaza.

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