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Kamala col suo nome: quando ci siamo accorti che esiste anche il vicepresidente degli Stati Uniti

Dalle polemiche sul come rivolgersi a lei (Harris, per alcuni, non è incisivo) a quelle sulla cover «troppo informale» di ‘Vogue’. Una sola cosa mette tutti d’accordo: la vice di Joe Biden è arrivata per restare

Foto: Andrew Harnik/POOL/AFP via Getty Images

Facciamo un gioco: ora vi snocciolo un po’ di ex presidenti degli Stati Uniti, e voi provate a indovinare chi fosse il loro vice. Gerald Ford (indizio: un tizio ricchissimo). Bush Senior (ok, è difficile). Primo mandato di Barack Obama (se non sapete questo, alzo le mani). Bill Clinton (vi viene in mente con “ambientalismo”?). Ronald Reagan (suggerimento: guerra del Golfo). George W. Bush (su di lui hanno pure fatto un film candidato all’Oscar, dai!). Donald Trump (scommetto che non lo sapete). Secondo mandato di Barack Obama (ok, trabocchetto). Se ne avete beccati più di due su sette mi sorprendete davvero, ma resto profondamente scettica. Nessuno, d’altronde, ha mai prestato più di tanta attenzione ai vicepresidenti, e un po’ di colpa ricade su film e serie tv, che spessissimo si sono divertiti a dipingerli come dei bastardi un po’ frustrati, una manica di manipolatori senza scrupoli logorati dall’invidia e dalla sete di potere, che tramano in segreto per soffiare il posto a boss più competenti. (Sì, sì, l’unica eccezione è Frank Underwood: «Ci sono due tipi di vicepresidenti: gli zerbini e i matador. Secondo voi quale voglio essere?»)

Fino all’altro ieri, insomma, potevamo continuare a snobbare l’esistenza del vicepresidente degli Stati Uniti – il cui compito principale è quello di assolvere le funzioni del presidente, qualora costui ne sia impedito, e di succedergli in caso di vacanza della carica – ma da oggi no. Perché oggi il, anzi, la vicepresidente è Kamala Harris, che sul fronte della presentabilità sociale conta dalla sua il fatto d’essere donna (la prima a ricoprire tale ruolo); il fatto d’esser figlia di immigrati (mamma indo-americana e papà di origine giamaicana); il fatto di vantare un curriculum mica da ridere (laurea in Legge, procuratrice distrettuale di San Francisco e poi della California, prima afro-asioamericana eletta al Senato). In più, Kamala Harris ha quella che in bolognese definiremmo “una gran càrtola”: è cool in una maniera che sembra le venga naturale, è simpatica eppure autorevole, abbina le sneaker ai tailleur, ha una risata genuina e contagiosa, non si spara le pose e sembra una tipa parecchio sveglia.

Kamala non ha la polvere, il rigore e la lacca di Hillary Clinton, ma nemmeno l’ostentata disinvoltura – talvolta il gigioneggiare – di Michelle Obama: l’impressione è che sia più spiccia, più concreta, una che quando hai un grattacapo ti dice «Tranquillo, ci penso io», e la preoccupazione di lì a un giorno sparisce. Nonostante gli innegabili meriti, la sua nomina è frutto anche di un calcolo politico: Harris rappresenta tutto ciò che Joe Biden non è – giovane, donna e non bianca – e lo stesso Biden, dopo aver vinto le primarie dem nella Carolina del Sud con l’appoggio del capogruppo alla Camera Jim Clyburn, viene da questi spinto a scegliere come potenziale vicepresidente una donna nera. Cito testualmente: «Le donne afroamericane devono essere ricompensate per la loro lealtà al partito». Serviva un segnale forte, che in seguito alla morte di George Floyd e alle conseguenti proteste è diventato assordante: quel segnale è stato Kamala Harris.

Che sin dall’inizio ci ha messi di fronte a un dubbio di natura amletica, quasi esistenziale: come chiamarla? “Kamala”, stando alle ultime tendenze, è denigratorio, poiché figlio della cattiva abitudine di riferirsi alle donne col solo nome e agli uomini col cognome. Peccato si tenda a dimenticare i vari Barack, George W., Uncle Joe, The Donald, eccetera, utilizzati indiscriminatamente nel corso degli anni: non ricordo una singola persona che ne abbia denunciato la sconvenienza, ma l’indignazione, si sa, segue il sistema del due pesi, due misure. Harris, di contro, è il ventunesimo cognome più comune negli Stati Uniti, e rischia di risultare poco incisivo: per alcuni, infatti – su un piano prettamente comunicativo – “Kamala” ha il pregio di denotarla subito come multiracial American, dunque possiede un potere evocativo maggiore. Una questione politica, sia chiaro, che arriva fino al “caso Vogue America”: Madam Vice President è sulla copertina del numero di febbraio, immortalata dal fotografo afroamericano Tyler Mitchell, e la rete giudica il suo look molto, troppo casual per il ruolo che le compete. Ai piedi sfoggia un paio di Converse (le sue scarpe preferite), sorride, al posto del tailleur indossa uno spezzato insieme a una t-shirt bianca e – orrore, orrore – la pelle del suo viso pare, agli occhi degli utenti, visibilmente schiarita dai photo editor della rivista.

Morale della favola, il 20 gennaio il gruppo Condé Nast annuncia il lancio di una nuova tiratura del numero incriminato, che riporterà sulla cover un’immagine più classica della vicepresidente: in abito color carta da zucchero firmato Michael Kors, ritratta su sfondo giallo oro con le braccia conserte (e, aggiungo io, con luci meno sparate in faccia). C’è chi chiede le dimissioni di Anna Wintour, chi sostiene che la polemica non stia né in cielo né in terra, chi punta il dito su foto non esattamente premianti; pochi si pongono invece la domanda fondamentale: possibile che lo staff di Kamala Harris non abbia approvato lo scatto? Possibile che Wintour, prima di mandare in stampa una copertina con la vicepresidente, non si sia sincerata di avere il via libera della suddetta vicepresidente? I dubbi a riguardo resteranno, e allo stesso modo sono destinate a non scomparire le perplessità sull’outfit sfoggiato in occasione dell’Inauguration Day, su quel cappotto viola e quell’abito più vicino al blu che insieme, ton sur ton, friggevano sullo schermo che era un piacere: nessuno ha creduto fosse bene avvertirla della scelta azzardata?

Se ciò rimarrà ascrivibile a un fashion-mistero, la sua posizione politica è decisamente più chiara: Kamala Harris è una moderata pragmatica, di sinistra, sì, ma non radicale, dunque più protetta dagli attacchi che i Repubblicani hanno sferrato a figure come Bernie Sanders o Alexandria Ocasio-Cortez. Il suo passato da procuratrice generale, a voler essere onesti, è stato spesso criticato e attaccato dalla sinistra: nonostante le proprie posizioni progressiste, Kamala è stata accusata di aver ostacolato o di non aver sostenuto a sufficienza riforme su temi come la polizia e le pene per lo spaccio di droga, e di aver contribuito ad alcune sentenze rivelatesi poi ingiuste. Allo stesso tempo, però, questo passato – che le ha fatto guadagnare il soprannome dispregiativo di “Top Cop” a sinistra – la rende più digeribile agli occhi dei centristi e dei Repubblicani, storicamente sensibili alle questioni relative a ordine e sicurezza.

Siamo quindi tutte bimbe di Kamala Harris? Un po’ sì, sarà per la sua càrtola, sarà perché ha l’aria di una che non le manda a dire, sarà perché non rientra a pieno titolo nel prevedibilissimo stereotipo del sogno americano. Mamma Shyamala era una stimata oncologa, mentre papà Donald è professore emerito di Economia a Stanford: Kamala è borghese quanto le sue immancabili perle, ha frequentato le migliori scuole e ricevuto totale appoggio (morale, culturale ed economico) da parte dei genitori. Una privilegiata, affermano gli attivisti moderni più intransigenti; una che potrebbe essere credibile come Presidente tra quattro anni, ribattono quelli un po’ più lungimiranti; vediamo d’arrivarci, tra quattro anni, concludono i più realisti. Intanto, guardiamo il bicchiere mezzo pieno: abbiamo imparato che esiste anche il vicepresidente degli Stati Uniti, e in un ipotetico quiz azzeccheremmo immediatamente il suo nome.

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