La condanna dell'assassino di George Floyd è storica, ma non basta | Rolling Stone Italia
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La condanna dell’assassino di George Floyd è storica, ma non basta

Derek Chauvin è stato condannato per omicidio. Il problema è che dal 2005 a oggi è l'ottavo poliziotto condannato a fronte di oltre 16mila persone uccise dalle forze dell’ordine negli Stati Uniti

La condanna dell’assassino di George Floyd è storica, ma non basta

Scott Olson/Getty Images

Derek Chauvin, l’ex agente di polizia ripreso da più persone mentre per nove minuti e mezzo ha tenuto il ginocchio premuto sul collo di George Floyd fino a fargli perdere i sensi, è stato dichiarato colpevole della sua morte. La giuria l’ha trovato colpevole di tutti e tre i capi di imputazione: omicidio involontario di secondo grado, omicidio di terzo grado e omicidio colposo. La pena massima per la più seria delle accuse è di 40 anni di prigione, ma il giudice che ha presieduto il processo si prenderà otto settimane per definire la pena a cui Chauvin sarà condannato. Nel frattempo, è stato deciso che l’ex poliziotto resterà in prigione fino alla prossima udienza.

“Credete ai vostri occhi. Avete visto esattamente quello che avete visto”, aveva affermato il procuratore speciale Steve Schelicher nel rivolgersi alla giuria durante le arringhe finali del processo. “Avete visto le foto. Avete visto il linguaggio del corpo dell’imputato mentre affronta la folla. Gli stavano puntando contro le telecamere, lo riprendevano, gli dicevano cosa fare, sfidavano la sua autorità, il suo ego, il suo orgoglio. Ma l’imputato non avrebbe lasciato che gli venisse detto cosa fare. Non aveva intenzione di lasciare che questi spettatori gli dicessero cosa fare. Stava per fare quello che voleva, come voleva, per tutto il tempo che voleva. Ha lasciato che il suo orgoglio prevalesse”.

Non era scontato che finisse così. Il giorno dopo l’omicidio di Floyd, dichiarato morto in ospedale la sera del 25 maggio 2020, il portavoce della polizia di Minneapolis John Elder aveva inviato ai giornalisti locali qualche riga di spiegazione, col titolo eufemistico: “uomo muore dopo un malore durante un’interazione con la polizia”. Secondo Elder, Floyd aveva “resistito fisicamente” all’arresto e, dopo essere stato ammanettato, gli agenti “avevano notato che sembrava soffrire di problemi medici”. In seguito – e anche durante il processo appena conclusosi – si è cercato di imputare la morte di Floyd a tutto tranne che a Chauvin, citando ad esempio il fatto che Floyd facesse uso di droghe e avesse problemi cardiaci. 

Anche dopo la pubblicazione di lunghi video girati dai passanti e da telecamere di sicurezza che mostravano come Chauvin avesse tenuto Floyd immobilizzato in una posizione pericolosa e si fosse rifiutato di liberarlo anche dopo che l’uomo aveva detto, per venti volte, di non riuscire a respirare, il procuratore generale del Minnesota Keith Ellison aveva detto che “portare in tribunale questo caso non sarà una cosa facile. Ottenere una condanna sarà difficile. La storia mostra che esistono chiari ostacoli”.

Aveva ragione: benché siano centinaia ogni anno le persone che vengono uccise dalla polizia statunitense 319 solo dall’inizio del 2021) è estremamente raro che un poliziotto venga accusato di omicidio quando uccide qualcuno in servizio. Nei pochi casi in cui avviene, soltanto un terzo di questi poliziotti viene poi condannato – per via di norme giuridiche che tendono a concedere loro il beneficio del dubbio, protezioni sindacali e la tendenza a credere ai poliziotti sulla parola. Nella pratica, questo vuol dire che, dal 2005, Chauvin è l’ottavo poliziotto ad essere condannato per omicidio – a fronte di oltre 16mila persone uccise dalle forze dell’ordine.

In questo caso, però, sono prevalse le parole di 45 testimoni – corroborate, se non bastasse, da video dettagliati degli ultimi istanti di vita di Floyd. Prove schiaccianti che spesso mancano in altri casi di violenza delle forze dell’ordine e che hanno fatto crollare quello che gli americani chiamano “il muro blu del silenzio”, ovvero il codice informale che porta gli agenti di polizia a coprirsi le spalle a vicenda di fronte a errori, comportamenti scorretti e casi di brutalità. Durante il processo, infatti, diversi colleghi di Chauvin hanno testimoniato contro di lui: il capo della polizia e l’ufficiale con più anzianità di servizio del suo dipartimento hanno dichiarato che l’uso della forza da parte di Chauvin era “in assoluta violazione” delle politiche del dipartimento e “totalmente inutile”.

Un po’ perché un verdetto di colpevolezza è raro, un po’ perché – nonostante le prove schiaccianti – non lo si poteva dare per scontato, un po’ perché  l’omicidio di George Floyd ha catalizzato la rabbia e l’energia di un movimento che, negli Stati Uniti ma non solo, chiede giustizia per la violenza sistemica a cui sono sottoposte da secoli le persone nere, il processo ha assunto una forza simbolica senza precedenti. Allo stesso tempo, però, diversi osservatori e attivisti fanno notare che sia il processo sia la condanna non fanno nulla per mettere in discussione l’inquietante realtà dell’uso della forza da parte delle forze dell’ordine statunitensi.

Come ha scritto sul Guardian Simon Balto, professore di African American History, “noterete che nessun testimone ha ipotizzato che forse nessun agente di polizia dovrebbe inginocchiarsi sul collo di una persona, mai, figuriamoci per aver presumibilmente passato una banconota da 20 dollari contraffatta. L’esistenza della violenza della polizia non è mai stata oggetto di riflessione o commento. Il fatto che Derek Chauvin abbia usato quella violenza in modi che violavano le politiche dipartimentali è l’unica cosa che ha contato. In altre parole, se le linee guida sull’uso della forza della polizia di Minneapolis avessero detto che era consentito inginocchiarsi sul collo di qualcuno per nove minuti e 29 secondi,  non sarebbe stato un problema”.

“Quello che non possiamo fare è riporre tutte le nostre speranze nel processo quando, in sostanza, il problema è un sistema che rende questo comportamento ammissibile”, ha affermato l’attivista Seft Hunter. “E quel sistema rimarrà intatto anche al termine del processo”.