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La crisi diplomatica con la Francia ci riporta al 1919 (e Dibba è il nuovo D’Annunzio)

Un secolo fa esatto l'Italia era in preda a proteste convulse che portarono all'avvento del fascismo. Perché la costante ricerca di un nemico comune e il mito dell'uomo del popolo sono ritornelli molto amati dagli italiani

Foto IPA

“Porterei i migranti della Sea Watch a Marsiglia, serve l’incidente diplomatico con Francia”. Così diceva due settimane fa Alessandro Di Battista (quando questi giorni finiranno sui libri di Storia, lo studio del suo personaggio sarà tra i più appassionanti e determinanti, ndr), ed è stato presto accontentato perché, complice il flirt elettorale del ministro Di Maio con alcuni esponenti (i peggiori, ça va sans dire) del movimento dei Gilet Gialli, la rottura è arrivata: ieri la Francia ha richiamato il suo ambasciatore a Roma. Missione compiuta, dunque, per Dibba: per ritrovare un simile scontro diplomatico con i vicini d’Oltralpe bisogna risalire al 1940, quando Benito Mussolini e il Regno d’Italia dichiararono guerra a Parigi.

I tempi che ci è toccato vivere e raccontare, d’altra parte, sono questi. La politica è diventata un’eterna guerra al nemico – per mascherare la propria incapacità di capire e domare un presente complicato come non mai –, e se non esiste tocca inventarselo. Non c’è più spazio per il dialogo, ma solo per le urla scomposte. In questo senso, mutato tutto ciò che doveva mutare, sembra di essere tornati a un secolo fa esatto.

Era il 1919 e l’Italia, uscita dalla devastazione della Grande Guerra, si incendiava con le proteste e le pistolettate in piazza (oltre a tanti libri di storia, il romanzo M, ultima fatica di Antonio Scurati, lo racconta bene, ndr), scossa dal fremito di dover cambiare tutto subito dopo tanta fatica e tanti tradimenti. Anche oggi c’è fermento, soprattutto nell’etere social. Gli spettri del diciannovismo sono tornati tra noi, secondo l’antico adagio della Storia che si ripresenta sotto forma di farsa.

Di questo abbiamo chiacchierato con Francesco Germinario, storico della Fondazione Micheletti, autore di decine di libri e ricerche sulla storia del Novecento italiano, tra cui Fascismo 1919. Mito politico e nazionalizzazione delle masse.

Allora, dicesi “diciannovismo”.
Il concetto è stato elaborato da uno dei più prestigiosi leader dell’antifascismo, che dedica al diciannovismo il primo capitolo del suo libro Storia di quattro anni. Intendeva quel periodo di agitazioni sociali, politiche e sindacali convulse, disorganizzate e sconvolgenti. Che non ebbero come esito nessun progetto coerente come, nel bene e nel male, era stata la rivoluzione bolscevica. Per un verso quel movimento rivelava l’insoddisfazione di alcuni settori della società italiana, per l’altro andò favorendo una reazione veemente, che avrebbe poi portato alla presa del potere da parte del partito fascista. In Italia ci si era quasi dimenticati di questo concetto, fino a quando nel 1977 il leader comunista Giorgio Amendola lo usò di nuovo per giudicare le agitazioni studentesche del tempo.

Quanto è stato davvero decisivo il diciannovismo per capire la genesi della dittatura in Italia?
Fondamentale. Perché davanti alle agitazioni delle classi subalterne, il movimento diciannovista non riesce a comprendere che si stanno formando in certe frange della società italiana – dai ceti medi ai professionisti, e anche alcuni intellettuali – atteggiamenti di aperta ostilità, che aspettavano solo un soggetto politico che li rappresentasse. Il 23 marzo vengono fondati i Fasci di combattimento a Milano, 15 aprile 1919 c’è subito il biglietto da visita della nuova formazione: squadre di arditi, fascisti, ex ufficiali dell’esercito e futuristi danno l’assalto alla sede dell’Avanti, sempre nel capoluogo lombardo. I dirigenti dei partiti di sinistra avrebbero dovuto allora capire quanto fossero grandi i limiti del sovversivismo di sinistra in Italia.

Con l’occhio dello storico, che comparazioni si possono fare con i giorni nostri?
Nel 1919 la situazione di sovversivismo dilagante si associa a una fase di cambiamento, in cui persone e gruppi prima ai margini iniziano a utilizzare strumenti nuovi come la forma partito, nascono non a caso in questi anni quello comunista e quello popolare. Oggi la forma partito è in grave crisi ma, oggi come allora, ciò che fino a poco tempo prima stava fuori dalle istituzioni tende a entrare: le forze antisistema si fanno sistema.

Oggi come un secolo fa, inoltre, si vivono fasi di fermento, coagulate attorno a delle idee forti.
Perché l’altro grande elemento in comune tra il 1919 e oggi è il mito: allora era quello dei Soviet da un altro e quello della patria da un lato, oggi quello del popolo e della difesa dei confini. La politica contemporanea, d’altra parte, ha sempre avuto un risvolto mitico, perché è quello che riesce a mobilitare le persone. Più sui social che in piazza, a dire il vero.

Anche nel 1919, con un Paese in ginocchio dopo la guerra, era necessario trovare sempre un nemico esterno, da additare alla propria gente come responsabile dei propri mali.
Diceva uno dei più grandi giuristi del ‘900, Carl Schmitt, un cattolico con tendenze nazisteggianti, che la politica si basa tutta sul confronto tra amico e nemico: bisogna sempre individuare l’alleato e al contempo il rivale su cui scaricare la propria polemica. La sua tesi è perfetta per raccontare la realtà di oggi: il nemico può venire da dentro o da fuori ed essere di un tipo o di un altro, basta che sia chiaro chi è.

Perché in questi momenti saltano del tutto le cautele diplomatiche, e Paesi con relazioni secolari vanno allo scontro?
Perché ciclicamente arrivano momenti in cui smettono di funzionare le mediazioni, che sono la prassi attorno a cui ruota tutto il concetto di democrazia. Esistono fasi della Storia in cui prevale un altro concetto, quello di conflitto, che è ciò che dà identità a se stessi e al proprio nemico. L’avversario – è successo nel 1919 e in altri momenti, sta succedendo di nuovo oggi – diventa la tua immagine riflessa nello specchio, e questo è un motore politico molto forte.

I politici barricaderi e uomini del popolo, quelli senza la giacca e la cravatta, sembrano un’altra costante del confronto.
In questi momenti, come detto, la figura del leader che media non serve più. Con tutti i suoi difetti, anche Berlusconi era un mediatore. Invece sta tornando la figura del leader che è tale perché riesce a crearsi avversari e chiamare a raccolta il suo uditorio per sostenere la sua azione. Qualcosa di molto diciannovista. Lo è smaccatamente uno come Alessandro Di Battista (da sempre affiancato più alla figura del guerrillero sudamericano alla Che Guevara, ndr), che recita costantemente il “personaggio Di Battista”. D’Annunzio aveva fatto della sua vita un’opera d’arte; allo stesso modo Di Battista cerca, con le sue uscite, di creare giorno dopo giorno l’icona Di Battista.

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