La frontiera fuorilegge nel cuore dell'Amazzonia | Rolling Stone Italia
Politica

La frontiera fuorilegge nel cuore dell’Amazzonia

Un viaggio all’interno della lotta per il futuro della foresta – e di tutto il pianeta – dove gli allevatori e i proprietari terrieri brasiliani giurano di proteggere il loro stile di vita a ogni costo

Foto: Amanda Perobelli/REUTERS

È giugno, l’inizio della stagione degli incendi in Amazzonia. Il fuoco infuria in tutta la foresta, l’ultima fase di bonifica del terreno per i pascoli. Il fumo è talmente denso da essere visibile dallo spazio e quaggiù sulla Terra si respira a fatica. Da dove sono seduto, dentro un pick-up ammaccato diretto verso sud, riesco malapena a vedere attraverso la tempesta di sabbia.

Mi trovo sulla BR-163, una strada infernale piena di buche in costruzione da 40 anni, da quando il Brasile era governato da una dittatura militare. Sono nel profondo nord dello stato di Pará, a più di 2000 km dalla costa atlantica e a 3 giorni di viaggio da Rio de Janeiro. Stiamo guidando da due ore in mezzo a buche grandi come crateri lunari e schivando una fila di autoarticolati. Snodandosi attraverso il bacino di Xingu, la BR-163 parte da Santarém, una città portuale calda e umida su un immissario del Rio delle Amazzoni, e termina 1600 km più a sud nello stato di Mato Grosso, nella pancia del Brasile. Tradotto letteralmente come “foresta fitta”, Mato Grosso è dove è scomparso il colonnello Fawcett mentre cercava la città perduta di Z. Lo stato, oggi quasi completamente arido, ricorda molto il Kansas.

La strada su cui stiamo viaggiando guiderà il Brasile verso un futuro da superpotenza commerciale. Sorpassiamo centinaia di camion diretti verso il porto del Rio delle Amazzoni, dove scaricheranno tutto in delle cisterne in rotta per l’Europa e la Cina. A 10 gradi dall’equatore, la BR-163 è una linea che divide due realtà, un punto di demarcazione tra il mondo naturale e quello che sembra essere il suo destino: una monocultura industrializzata che avanza ogni anno sempre più a nord.

La BR-163 è diventata famosa per questo; poche aree dell’Amazzonia brasiliana hanno visto una deforestazione più rapida negli ultimi 10 anni. Mi è stato detto che se voglio comprendere le forze che stanno guidando la distruzione dell’alleato più importante del mondo contro il cambiamento climatico, questo è il posto dove andare. In poche settimane, lungo questa strada saranno scoppiati incendi appiccati intenzionalmente dagli allevatori che vivono qui. Entro agosto, quasi 80mila roghi divamperanno attraverso l’Amazzonia, generando una colonna di fumo che oscurerà i cieli di São Paulo e susciterà le proteste internazionali spostando l’attenzione mondiale, sebbene per poco tempo, verso la terra in cui mi trovo ora.

Dopo aver sorpassato un punto in cui c’era parte della foresta, ora rasa al suolo, Gabriel, il mio mediatore, mi spiega lo processo di distruzione. Per prima cosa vi è l’estrazione dei legni pregiati, seguita da quella dei minerali e dall’allevamento di bestiame, la causa principale della deforestazione. L’ultima fase è la coltura della soia, dalla quale non si può tornare indietro. Enormi strisce di quello che una volta era il bioma della foresta pluviale sono già state trasformate in savana e, a meno che qualcosa non cambi drasticamente, questo sembra essere il futuro di ciò che rimane della foresta lungo la BR-163.

In un modo o nell’altro, tutto ciò che cresce qui finisce nella catena mondiale di approvvigionamento. Il 40% dei bovini del Brasile è allevato in Amazzonia e la maggior parte di esso è lavorato dalla compagnia brasiliana JBS, il maggior fornitore mondiale di carne bovina. Il manzo viene spedito dal Brasile in tutto il mondo, soprattutto in Cina, Hong Kong e in Europa, anche se una buona parte di esso va negli Stati Uniti – 31mila tonnellate lo scorso anno – come carne in scatola, essiccata, oppure come cibo per animali. Secondo Trase, una ONG con sede a Stoccolma che traccia le filiere, la pelle del bestiame allevato in Amazzonia è utilizzata dai grandi nomi dell’arredamento e della produzione di auto degli USA. E la maggior parte degli autocarri che stiamo sorpassando sulla BR-163 è diretta verso una grande fabbrica di Santarém posseduta da Cargill, la società privata più grande degli Stati Uniti, dove la soia sarà trasformata in mangime per mucche e polli, che saranno poi consumati nelle catene di fast-food di tutto il mondo. In altre parole, ciò che succede in Amazzonia riguarda tutti noi.

Sono diretto in prima linea verso la lotta per il futuro della foresta. È una zona senza leggi dove gli allevatori di bestiame, i minatori d’oro e le imprese del legname si stanno avvicinando sempre di più a una delle più grandi riserve indigene rimaste intatte del sud dell’Amazzonia, un’area di più di 30mila km quadrati che include i villaggi di Baú e Mekragnotire, la casa del popolo Kayapó. Voglio scoprire se è possibile salvare la foresta prima che l’industria la uccida per sempre.

Un’area deforestata vicino Novo Progresso, un avamposto disperso nella giungla a circa 10 ore dal porto. La città conta quasi 25mila abitanti, e l’atmosfera è quella del vecchio West. Le strade, quasi tutte non asfaltate e piene di polvere, sono piene di negozi che servono cercatori d’oro, allevatori e taglialegna. Foto: Andre Penner/AP/Shutterstock

 

Le foreste del mondo, dall’Indonesia al Congo, sono un tampone fragile contro il cambiamento climatico e stanno scomparendo. Solo nel 2017, sono spariti più di 150mila km quadrati di foresta pluviale. È l’equivalente della perdita al minuto di 40 campi da calcio ricoperti di alberi per un intero anno.

In Amazzonia, dove si trovano il 40% della foresta pluviale del mondo e la maggiore biodiversità presente sul pianeta, la posta in gioco è la più alta di tutte. Due dei migliori scienziati del cambiamento climatico, il brasiliano Carlos Nobre e Thomas Lovejoy della George Mason University, hanno calcolato che se scomparirà un’altra quantità tra il 3 e l’8% della foresta pluviale, questa inizierà ad autodistruggersi.

Nel febbraio 2018, Nobre e Lovejoy hanno pubblicato un articolo in cui annunciano che siamo sull’orlo di un punto critico. Nel 2016, per la prima volta nella storia, l’Amazzonia ha rilasciato nell’atmosfera più anidride carbonica di quanta ne abbia assorbita. Le cause, ovvero la diffusione della siccità e incendi boschivi, sono di per sé effetti del cambiamento climatico, ma Nobre e Lovejoy avvertono che se la deforestazione dell’Amazzonia continuerà a questa velocità, più della metà della foresta pluviale potrebbe morire in modo permanente, una situazione fuori controllo di cambiamento climatico che spaventa per tutte le sue ripercussioni. I modelli meteorologici cambierebbero in tutto il sud America e verrebbero rilasciati nell’atmosfera miliardi di tonnellate di anidride carbonica.

Quel che è più tragico di ciò che sta succedendo in Brasile – casa del 60% della foresta pluviale amazzonica – è che sotto il Partito dei Lavoratori di sinistra la deforestazione è precipitata al 70% tra il 2005 e il 2013 a causa di una serie di riforme violente che includono mettere da parte 600mila km quadrati di foresta pluviale, un’area quasi grande come la Francia, per protezione. Il monitoraggio dell’agenzia spaziale ha dato l’allarme per la perdita della foresta in tempo reale, gli allevatori sorpresi a tagliare gli alberi hanno perso l’accesso ai crediti e un gruppo elitario di poliziotti ambientalisti ha applicato tolleranza zero ai trasgressori volando in elicottero sulle aree di distruzione, dove ha distrutto i macchinari per l’attività estrattiva o dato fuoco ai trattori e alle ruspe usati per radere al suolo la giungla. Quello che non ha distrutto, l’ha confiscato.

Nel 2014, le cose hanno iniziato a rovesciarsi. Tutto questo è coinciso con il peggior scandalo di corruzione della storia del Brasile, che ha cacciato il Partito dei Lavoratori e dato vita a una coalizione politica di estrema destra conosciuta come il caucus di “Bible, Beef and Bullets” (Bibbia, bovini e pallottole). Sotto la presidenza di Michel Temer, un vecchio sostenitore degli allevatori e coltivatori di soia, il budget del Ministero dell’Ambiente è stato tagliato e l’ente responsabile della protezione delle riserve indigene brasiliane, il FUNAI, ha dovuto difendersi contro i tentativi della lobby degli agricoltori che ha provato a eliminarlo. Ciononostante, dozzine di basi del FUNAI sono state chiuse e il loro budget è stato quasi dimezzato.

Poi è arrivato Jair Bolsonaro. Ex capitano dell’esercito con la fissa per gli anni passati dal Brasile sotto regime militare, è conosciuto come il “Trump dei Tropici”. Razzista e omofobo, quando ha iniziato la sua corsa per la presidenza nessuno lo aveva preso sul serio. Una volta ha detto a una collega alla sede del congresso che non l’avrebbe violentata perché “non ne sarebbe valsa la pena” perché “era troppo brutta”.

Bolsonaro è riuscito a cavalcare l’onda populista globale unendo il crescente blocco di elettori evangelici del Brasile alla lobby degli agricoltori, conosciuta anche con il nome “ruralistas”. Come Trump, ha dichiarato apertamente il suo disprezzo verso la scienza e ha definito il cambiamento climatico una cospirazione marxista. Ha promesso di portare l’Amazzonia allo sviluppo e ha giurato di eliminare gli studi sull’impatto ambientale dei progetti infrastrutturali bloccati dalla burocrazia. Le strade come la BR-163, che sono da tempo non asfaltate, saranno finite. E non si concederà “un centimetro in più alle terre indigene”.

Da quando Bolsonaro ha iniziato il suo mandato a gennaio, gli alberi dell’Amazzonia brasiliana stanno scomparendo a velocità straordinaria, e ogni settimana perdiamo un pezzo di foresta grande quanto l’area di due Manhattan. Quest’estate l’INPE, l’agenzia spaziale di ricerca brasiliana, ha annunciato che le immagini via satellite mostrano che a luglio la deforestazione è cresciuta del 278% rispetto all’anno precedente. In replica, Bolsonaro ha contestato i dati, licenziato il capo dell’INPE e ha minacciato di chiudere tutta l’agenzia. Jose Sarney Filho, che è stato ministro dell’ambiente per due presidenze, mi dice che “ciò che sta accadendo non ha precedenti. Questo nuovo governo sta cercando di distruggere quello che abbiamo costruito per 30 anni”.

Sotto Bolsonaro, i signori del bestiame e gli agricoltori stanno agendo impunemente. “Ciò che è più doloroso e scoraggiante è che per più di 10 anni abbiamo mostrato al mondo che la deforestazione può essere fermata” mi dice Marina Silva, ex ministro dell’ambiente e candidata alla presidenza. “Non penso che le persone capiscano quanto fragile sia la foresta e quanto velocemente potrebbe scomparire”.

Siamo sulla BR-163 da 6 ore. Gabriel sta guidando a rilento per evitare massi e buche inaspettate sulla strada. L’uomo che ci fa da spalla è un fotogiornalista veterano di São Paulo di nome Lilo. Indica le buche, si ferma per fotografare strane carcasse di animali investiti e mi aiuta a riconoscere le differenze tra gli avvoltoi e altri grandi uccelli che sorvolano la foresta.

“Per fortuna non è la stagione delle piogge” dice Gabriel. In quel periodo la strada è impraticabile. A volte i camion che trasportano la soia rimangono bloccati qui per settimane. Lo scorso inverno l’esercito è dovuto arrivare in volo e portare cibo e provviste, mentre alcuni camionisti hanno semplicemente abbandonato il loro carico.
Siamo diretti a Novo Progresso, un avamposto nella foresta lontano e isolato a quasi 10 ore dal porto. La città, divisa in due dalla strada, conta quasi 25mila abitanti, è circondata dalla foresta pluviale e vi è un’atmosfera da vecchio west. Le strade sono quasi tutte sterrate, polverose e in linea con i negozi che riforniscono i minatori d’oro, i proprietari terrieri e i taglialegna.

Questa è la casa del cosiddetto “Re della deforestazione”, un uomo che gli investigatori federali hanno collegato a un boss della mafia che a quanto pare è stato indagato con l’accusa di tenere i suoi lavoratori in condizioni di lavoro simili a quelle degli schiavi, responsabili di aver distrutto grandi parti della foresta nazionale per fare spazio all’allevamento del bestiame e alla speculazione edilizia. Possiede un concessionario auto, una catena di supermercati ed è collegato al circolo politico d’élite che governa la città. IBAMA, l’ente che si occupa di proteggere la foresta, opera da una base in periferia, ma non permette ai propri agenti di lasciare il suo complesso cintato. I loro camion sono stati bruciati e hanno ricevuto così tante minacce di morte che operano solamente sotto la protezione della polizia federale brasiliana. Degli informatori che lavorano su richiesta di ladri di terreni tracciano i movimenti degli agenti. Siamo diretti in una zona di guerra.

Mentre ci avviciniamo alla città, Lilo e Gabriel si scambiano storie su ciò che hanno sentito da altri giornalisti che sono venuti a Novo Progresso. Lilo racconta che a una collega è stato chiesto di andare via poco dopo il check-in hotel. Ignorato l’avvertimento, ha poi trovato una busta sotto la porta: conteneva 3 pallottole. Gabriel ha un amico che è venuto qui 3 anni fa con una ONG. Degli uomini armati hanno circondato il suo hotel e ordinato a tutti di uscire per “sparare agli ambientalisti”. Una scorta della polizia ha dovuti portarli via dalla città.

La sera, in una pizzeria in centro, diventa subito chiaro che la maggior parte dei residenti si sono trasferiti qui da altre parti del Brasile, soprattutto dal sud. Hanno nomi tedeschi e lineamenti europei, e Gabriel e Lilo riconoscono subito gli accenti di stati come Paraná e Rio Grande do Sul. Sono i figli degli immigrati che sono venuti qui una generazione prima, durante uno dei più grandi schemi di reinsediamento nella storia del Brasile, quando i generali che governavano il paese avevano la paranoia di occupare l’Amazzonia per far sì che non fosse invasa da potenze straniere.

Così, il governo brasiliano ha offerto grandi lotti di terra a chiunque accettasse di salire su un aereo e di essere lasciato nella foresta. In modo simile alla conquista delle terre dell’Oklahoma del 1889, il governo non si era preoccupato molto del fatto che in realtà la foresta era già abitata. Le conseguenze sono state disastrose. Sono scomparse dozzine di tribù e senza un programma di gestione della foresta in loco, i colonizzatori l’hanno tagliata e bruciata a fondo. Quando la BR-163 è passata attraverso il territorio dei Kreen-Akrore, 250 membri della tribù sono stati uccisi nel giro di un anno da malattie portate dagli operai della strada.

“C’erano solo alberi e foresta e loro erano per la maggior parte persone che non avevano idea di come vivere in Amazzonia” mi racconta suor Jane Dwyer, che ho incontrato lungo la strada transamazzonica e che vive qui dal 1972. “C’erano 9 mesi su 10 di pioggia, serpenti, la malaria, non so come le persone sopravvivessero. I più non lo hanno fatto”.

Lo sviluppo in Novo Progresso si è verificato lungo la strada, secondo un modello seguito in ogni parte dell’Amazzonia. Il bestiame era il modo più economico per occupare le terre e rivendicarle. A differenza delle piantagioni di soia del sud, che richiedevano fertilizzanti costosi, macchine di lavorazione e infrastrutture per l’irrigazione, il bestiame necessitava poco più di un recinto abbozzato e di sementi per i pascoli.

L’uomo che sarebbe diventato il “Re della deforestazione”, Ezequiel Castanha, si è trasferito a Mato Grosso negli anni ’80, da adolescente, e a 25 anni ha aperto un piccolo mercato che riforniva una miniera d’oro sul confine tra Mato Grosso e Pará. All’inizio degli anni 2000, in Mato Grosso è stata distrutta così tanta foresta che le terre hanno iniziato a essere costose. Castanha è venuto a sapere che doveva andare a nord sulla BR-163, verso quella che stava diventando velocemente la nuova frontiera agricola del Brasile. È arrivato a Novo Progresso nel 2003, quando le tensioni riguardo il futuro della foresta stavano già crescendo. Quell’anno, quando gli agenti federali sono venuti qui per segnare i confini delle nuove riserve di Baú e Mekragnotire, una folla di centinaia di agricoltori, taglialegna e minatori – la maggior parte armati – ha spinto quasi mille cittadini a chiudere la strada in segno di protesta. Dopo si sono addentrati nella foresta con la promessa di stanare gli agenti.

“Mi sono stufato di continuare a provare a tenerli sulla strada” ha detto ai reporter un uomo chiamato Agamenon Menezes. È il presidente di un sindacato di allevatori chiamato “Produttori rurali di Novo Progresso” ed è di fatto il boss della città. Ha detto che la situazione si sarebbe potuta inasprire e che i suoi uomini sparano per uccidere. “Quando un cacciatore entra nel bosco seguendo la sua preda, l’arma è pronta a sparare”.

Da quel momento, il presidente Luiz Inacio da Silva e la sua coalizione del Partito dei Lavoratori hanno reso Novo Progresso e la BR-163 il punto centrale del loro ambizioso piano per rallentare la deforestazione. L’amministrazione, ha annunciato da Silva, finirà di asfaltare la strada solamente se allo stesso tempo sarà salvaguardata la foresta. Nel 2006 a nord di Novo Progresso, il presidente ha trasformato la foresta Jamanxin in patrimonio nazionale. Lì lo sviluppo era bloccato, ma c’erano già più di 250 fattorie illegali tra cui una di proprietà del sindaco. Anche prima che diventasse una foresta nazionale, non vi era modo di possedere alcuna proprietà in modo legale.

“Nel resto del Brasile, chi ha un terreno può provarlo con un atto di proprietà” spiega a Brio, una rivista online brasiliana, Daniel Azeredo Avelino, ex procuratore federale dello stato di Pará. “Qui il numero di persone che ce l’ha è davvero basso, per l’80 o il 90% delle proprietà della regione non vi è alcun documento”.

Sulla destra, Ezequiel Castanha, il “Re della Deforestazione”, arrestato a Novo Progresso nel 2015. Gli agenti federali stimano che in un solo anno si è reso responsabile del 10% della deforestazione di tutta l’Amazzonia. Foto: Juliano Simionato/Folha do Progresso/REUTERS

 

Nel 2006, gli ufficiali dell’IBAMA hanno revisionato le immagini del satellite dal loro ufficio di Brasilia, la capitale del Brasile. Le immagini dei dintorni di Novo Progresso erano scioccanti. Un pezzo di foresta era semplicemente svanita in pochi giorni. Sorvolando la zona per verificare con i loro occhi, hanno trovato una radura di 4km quadrati tra la strada e il fiume Curuá che scorre attraverso la riserva Bau. Sul terreno raso al suolo da Castanha c’erano già sei fattorie.

Visto l’incremento di operazioni di IBAMA nei pressi di Novo Progresso, le minacce contro gli agenti sono aumentate e nell’aprile del 2011 una folla ha invaso un complesso ai margini della città. Sapevano, grazie agli informatori, che gli agenti avevano pianificato di fare irruzione in una fattoria nella foresta di Jamanxin posseduta dal vicesindaco. Quando un elicottero stava per decollare, la folla ha legato dei cavi d’acciaio all’elica per bloccare la continuazione dell’azione.

Pochi giorni dopo, il capo dell’ente locale dell’IBAMA ha convocato una riunione con il sindaco, il consiglio comunale e i leader della città per calmare gli animi. Per l’occasione, gli agenti dell’IBAMA sono arrivati armati. A metà dell’incontro, Castanha si è alzato e ha ammesso di avere raso al suolo delle terre nel parco nazionale e averle vendute a un dottore del posto, che è poi diventato vicesindaco. Non ne era per nulla dispiaciuto. Ha detto al capo dell’IBAMA che “se non puliamo la foresta, diventa una riserva. Siete voi che ci fate fare questo”.

Gli agenti dell’IBAMA e la polizia federale hanno iniziato a indagare più a fondo nelle attività commerciali di Castanha, esaminando i documenti fiscali e le transazioni finanziarie e intercettando le sue chiamate. Sostengono che sia il capo di un’organizzazione criminale diffusa che si estende dall’Amazzonia fino a São Paulo e nel sud del Brasile.

Fino al 2014 Castanha ha accumulato 9 milioni di dollari di multe, è stato accusato 16 volte di crimini ambientali e gli sono stati confiscati quasi 50km quadrati di terre per deforestazione illegale. Nel 2015, i funzionari federali hanno stimato che Castanha da solo sia responsabile del 10% della deforestazione in tutta l’Amazzonia. Lui ha rifiutato di pagare le multe e ha continuato a trattare le terre come se fossero sue. Un’intercettazione ha rilevato che attraverso un agente immobiliare aveva diviso in lotti dei terreni di cui si era impossessato illegalmente e li aveva venduti. Quando, nella primavera dello stesso anno, un reporter del notiziario nazionale Globo Rural lo ha intervistato, Castanha ha affermato che “se non disboscassimo, non ci sarebbe il Brasile. Non ci sarebbe niente”.

Il 27 agosto del 2014, prima dell’alba, 96 agenti federali si sono calati su Novo Progresso equipaggiati con giubbotti antiproiettile e fucili d’assalto. Vestiti di nero, si sono raggruppati nella sede centrale dell’IBAMA e, dopo avere chiamato dei rinforzi, si sono divisi in piccoli plotoni e si sono sparsi per la città. Hanno arrestato dei membri del gruppo di Castanha, tra cui il capo della sua squadra di deforestazione e un avvocato che aveva trascorso gli ultimi giorni distruggendo i documenti incriminanti, ma Castanha si era dato alla fuga. È rimasto a piede libero per quasi 6 mesi. Nel febbraio 2015, grazie a una soffiata riguardo il suo ritorno a Novo Progresso, gli agenti federali sono tornati in città e questa volta l’uomo si è consegnato.

Quella notte il filmato in cui si vede Castanha condotto in manette verso un elicottero è andato in onda nel notiziario nazionale. Il “Re della deforestazione” era stato catturato. Gli ufficiali hanno stimato che la sua squadra era responsabile del 20% della deforestazione dell’Amazzonia negli ultimi anni e lo hanno accusato di crimini ambientali e riciclaggio di denaro. Dopo pochi mesi, però, è stato rilasciato di prigione (il processo per il suo caso deve ancora iniziare) e, poco dopo, la deforestazione lungo la BR-163, che era scesa al 65% nei 7 mesi successivi l’emissione del mandato del suo arresto, ha ricominciato a crescere.

L’Istituto Kabu si trova accanto alla BR-163 dietro mura di cemento. È la sede ufficiale di una no-profit che sostiene i Kayapó ed è anche un luogo di ritrovo per i membri della tribù che passano per Novo Progresso.

La mattina della nostra visita, il sole sta per sorgere dietro la foresta. Alcuni dei Kayapó sono seduti nella veranda, fumano sigarette in attesa dell’apertura dell’Istituto. L’odore di legna appena tagliata aleggia nell’aria da un deposito lì vicino.

A oggi i Kayapó sono una delle più ricche e forti tribù del Brasile, ma durante gli anni ’70, quando è stata completata la strada transamazzonica, la loro popolazione è diminuita da 4mila a circa 1300 membri. Nei decenni successivi, una serie di capi leggendari ha trovato il modo di adattare la loro cultura guerriera al mondo moderno. Hanno pattugliato i loro confini e sequestrato attraversamenti fluviali strategici. Si sono messi in contatto con delle no-profit e si sono uniti a celebrità come Sting per protestare contro la costruzione di una diga che avrebbe inondato le loro terre. Hanno anche usato la forza: i guerrieri hanno fatto irruzione nei ranch e nelle miniere d’oro che avevano occupato illegalmente il loro territorio, prendendo degli ostaggi e avvisando gli intrusi che avrebbero avuto 2 ore per andarsene altrimenti sarebbero stati uccisi. Alcuni sono morti. Altri sono stati rimandati in città nudi e umiliati.

Qualche anno fa, i Kayapó hanno contribuito a un’operazione contro un uomo chiamato AJ Vilela, il quale era succeduto a Castanha come nuovo “Re della deforestazione”. Con base a Castelo Dos Sonhos, una città a un paio d’ore a sud di Novo Progresso, i profili del progetto erano simili: speculatori terrieri che si impadronivano illegalmente della foresta lavoravano con agenti immobiliari per offrire proprietà a investitori nel sud del paese. A differenza di Castanha, Vilela non viveva nemmeno nella zona, ma dirigeva le operazioni da uno dei quartieri più ricchi di São Paulo, il Jardim Europa.

Figlio di un signore del bestiame accusato negli anni ’80 di avere tentato di avvelenare gli indiani con l’arsenico, Vileva era un’istituzione della cronaca mondana (ha sposato una famosa designer di gioielli brasiliana a S. Barths e sua sorella è apparsa nell’edizione brasiliana di Vogue) e aveva legami famigliari con alcune tra le più grandi figure di spicco dell’agrobusiness del paese.

Alcuni membri della tribù indigena dei Kayapo, che vive in una riserva vicino Novo Progresso. Ogni anno, taglialegna e i minatori si avvicinano sempre di più al loro territorio. Foto: Fernando Bizerra Jr/EPA/Shutterstock

 

Vilela operava già anni prima che l’IBAMA rilevasse la deforestazione: le sue squadre lasciavano la chioma degli alberi intatta risparmiando quelli più alti e nascondendo i campi rasi al suolo dalle immagini del satellite. Poi, nell’aprile 2014, dei membri Kayapó sono arrivati nella capitale con i colori di guerra, archi e frecce. Hanno aspettato che il capo dell’IBAMA uscisse dal lavoro e si sono confrontati in un parcheggio. Le terre all’interno della loro riserva stavano scomparendo e avevano bisogno dell’aiuto dell’IBAMA.

Così hanno dato il via all’operazione Kayapó. Gli agenti dell’IBAMA hanno esaminato i bonifici e gli atti di proprietà, mentre i Kayapó vagavano per la foresta per cercare i campi di taglio della legna. Hanno catturato infine 40 persone che stavano tagliando la foresta e insieme agli agenti dell’IBAMA le hanno interrogate per capire l’operazione.
Al momento dell’arresto di Vilela, la sua squadra aveva raso al suolo 300km quadrati di foresta, un’area 5 volte più grande di Manhattan. Il capo dell’IBAMA, Luciano Evaristo, ha dichiarato l’operazione un vero successo e ha detto che la cooperazione con le tribù era l’unico modo per fermare la deforestazione. Loro erano la vera mente della foresta, in grado di scoprire quello che i satelliti avrebbero trovato solo dopo l’accaduto. Ma tutto ciò è avvenuto durante le precedenti amministrazioni presidenziali, prima che l’IBAMA venisse bloccato e le sue operazioni venissero arenate.

All’Istituto Kabu, un membro dello staff mi mostra come gli agricoltori stiano sconfinando ogni anno sempre più vicino ai villaggi di Baú and Mekragnotire. Mi mostra una mappa su uno schermo con in verde la foresta e in puntini rossi le terre rase al suolo. Mi spiega che l’area tampone tra la BR-163 e la riserva una volta era quasi di 100km. Ora è quasi scomparsa. Gli agricoltori stanno deforestando ai confini della riserva indigena e il membro dell’Istituto è preoccupato che un giorno o l’altro invadano il territorio.

Ci presenta uno dei Kayapó che hanno aiutato a catturare Vileva, ma l’uomo si rifiuta di parlare riguardo l’operazione. Quando facciamo il nome di Castanha, nella stanza cala il silenzio.

Sembra che nessuno voglia parlare di lui. Abbiamo sentito dire che a nord della città c’è un insediamento abusivo e che un’attivista del territorio che vive là vuole parlare con noi, ma poi ci comunica che è troppo pericoloso e che ha paura di venire in città. Ci offriamo di raggiungerla nell’insediamento e lei smette di risponderci. Un agricoltore che aveva promesso di parlare in modo confidenziale della rete criminale di Novo Progresso ci dice di vederci per cena una sera e poi sparisce. La mattina seguente ci manda un messaggio criptico e poi ci ignora.

Lilo suggerisce che mi serve un modo per indagare su Castanha, e per iniziare dobbiamo incontrare Agamenon Menezes, il presidente dei “Produttori rurali” di Novo Progresso, l’associazione locale di allevatori. C’è un gruppo simile in quasi ogni città lì vicino dell’Amazzonia e detengono tutte un potere politico significativo. Menezes a quanto pare ha la sua milizia personale.

Lo troviamo in un ufficio umido in centro città. I muri sono sudici e il luogo ha l’odore stantio della foresta. Sulle pareti ci sono poster di bestiame e trattori. Su uno schedario è posato uno staio di soia. Menezes è nel back office seduto dietro una grande scrivania. È un uomo alto ed esile con gli occhi scuri e i capelli corti. Parla borbottando in modo lento e punteggia le sue frasi con un sorriso che sembra sinistro. Le sue mani tremano per quello che sembra essere l’inizio precoce del Parkinson.
Spiega di essere arrivato negli anni ’80 come molti “pionieri” della città, quando non c’era altro che la foresta densa. Dice di avere preso la malaria 70 volte e ricorda quando le strade erano così messe male che una volta era rimasto bloccato e aveva dovuto camminare 17 giorni per tornare a casa. Mentre parla, è evidente che è fiero di ciò che è diventata Novo Progresso. Non si ritiene una delle persone che hanno dato inizio a una devastazione ambientale senza precedenti. Si percepisce come una persona che ha portato la civilizzazione in una terra senza legge.

“Siamo venuti qui perché quello stesso governo che oggi ci chiama banditi e criminali ci ha mandato qui. Siamo stati degli esploratori e ora la stampa ci descrive come i cattivi” sostiene Menezes. Mi dice che Castanha è un eroe del posto che è sceso in campo contro un governo tirannico che si sarebbe recato nelle terre deforestate e distrutto i trattori e bruciato i recinti senza un giusto processo.

“È arrivato al momento giusto e ha fatto ciò che molte persone avrebbero voluto fare, ma avevano paura di farlo” sostiene Menezes. “Ha aperto fattorie e le ha vendute. Qui è un leader ed è molto rispettato”.

Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro (il secondo da destra): ha promesso di aprire l’Amazzonia allo sviluppo economico e si è detto determinato a eliminare gli studi sull’impatto ambientale che hanno bloccato alcune infrastrutture. “Non lascerò nemmeno un centimetro di terra indigena”, ha detto. Foto: Bruna Prado/AP/Shutterstock

Poi, dice, le cose sono cambiate con Bolsonaro. Il presidente sa che la produzione rurale è il motore che fa funzionare il Brasile. È tenuto a freno dall’IBAMA, un ente che secondo Menezes esagera i dati sulla deforestazione o più semplicemente se li inventa. “Vengono qui con le maniere forti bruciando le attrezzature e via dicendo, sempre con i media sui loro elicotteri. Ora, per via di Bolsonaro, sono state insegnate loro le buone maniere. Sono venuti qui a parlare con me l’altro giorno, con rispetto, dicendomi che era stato detto loro come dovrebbe agire il governo” racconta Menezes.

L’uomo fa una lista degli ordini che ha impartito durante gli anni, come la volta in cui ha mandato i suoi uomini su una pista d’atterraggio dove una troupe di documentaristi doveva partire per tornare casa. Avevano sorvolato l’area filmando le fattorie nelle zone ricavate dalla foresta. Menezes mi dice che i suoi uomini hanno frantumato le telecamere e distrutto i filmati.

Mi dice anche di essere la ragione per cui le ONG attive per la protezione di altre parti dell’Amazzonia non sono state in grado di insediarsi qui.
“Le ONG e voi, i media, venite qui e ci dipingete come i cattivi. Ecco perché non lascerò che nessuno di loro venga qui” dice riguardo le ONG. “Userò ogni mezzo a disposizione per impedire che si stabiliscano qui”.
“Per esempio?”.
“Per esempio bruciando le loro macchine” mi risponde.
Un silenzio teso e imbarazzante riempie la stanza.
Stringe le sue mani nodose intorno allo stomaco, il pancione di un uomo vecchio, e si appoggia indietro sulla sedia.
“Proteggeremo il nostro stile di vita”.

La mattina successiva ci svegliamo prima dell’alba e ci dirigiamo a est verso le riserve di Baú and Mekragnotire. Viaggiamo con Kudjekre Kayapo, un membro della tribù Kayapó che lavora all’Istituto Kabu. Mentre avanziamo a stento su una stretta strada sterrata, la foresta si chiude sopra di noi e dalla chioma degli alberi si alza una nebbiolina. Abbasso il finestrino e respiro l’aria umida, intensa e fresca. Kudjekre mi guarda e sorride. “L’aria qui è diversa, vero?”.

Viaggiamo quasi 3 ore prima di arrivare a un piccolo fiume che segna il confine della riserva. Kudjekre fa una telefonata al cellulare e pochi minuti dopo sentiamo il rombo basso di una piccola barca da pesca e un membro della tribù ci accompagna lungo il fiume.

In Brasile, le comunità indigene vengono chiamate aldeias. In genere, sono piccole radure di terra nella foresta dove circa una dozzina di capanne con il tetto di paglia si aprono a semicerchio. Quando arriviamo, la maggior parte della tribù, che aveva saputo del nostro arrivo, è raggruppata sotto una specie di padiglione chiamato “il consiglio del guerriero”. Tutti gli uomini sono pitturati di nero, mentre le donne si sono ornate con dei tatuaggi neri che spariranno in poche settimane.

Nonostante i Kayapó abbiano mantenuto le loro usanze tradizionali e per molti versi vivano come facevano i loro predecessori, è evidente che il mondo moderno sia penetrato anche qui. Un gruppo di giovani sta intagliando del legno mentre controlla Facebook di tanto in tanto sullo smartphone. Un uomo fuma appoggiato a una moto, ci saluta e indica la parte anteriore del padiglione, dove il capo è seduto su una panca ricavata in modo grezzo da un tronco. Il suo nome è Cacique Ireo Kayapo e mi fa cenno di sedersi vicino a lui. Ha disegnato una sottile striscia nera in mezzo agli occhi e sulla pancia coperta di piccole gocce di sudore. Ci siede accanto un altro uomo della tribù per tradurre.

Ireo parla in modo malinconico degli anni in cui la tribù non aveva ancora visto alcun minatore o taglialegna. Negli anni ’80 le terre della riserva non erano nemmeno contrassegnate e gli unici uomini bianchi che vedevano erano del FUNAI. Racconta che i minatori sono arrivati nel 2009 e all’inizio la tribù pensava che lavorare con loro sarebbe stata una buona cosa. Ma, poco dopo, il denaro ha spinto una tribù contro l’altra, e l’alcol introdotto dai minatori ha rovinato uomini e famiglie. Dopo di loro sono arrivati i tagliaboschi e poi gli allevatori con i loro incendi, l’odore di fumo e distruzione.

“Non vogliamo più mescolarci a queste persone, non vogliamo che i bianchi vengano nelle nostre terre” afferma Ireo.

È preoccupato del fatto che gli agricoltori di Novo Progresso abbiano gli occhi puntati sulla riserva. Costretti a scendere a compromessi, i Kayapó hanno già accettato di ridurne l’area sperando che ciò fermi l’invasione della foresta. Ma niente è cambiato. Gli allevatori si avvicinano ogni anno di più e divorano sempre più terra.

Alcuni camionisti in coda sulla BR-163, bloccati dai “garimperos” – cercatori d’oro illegali – durante una manifestazione nello stato di Pará, in Brasile, il 13 settembre 2019. Foto: Nelson Almeida/AFP/Getty Images

Il futuro di cui ha paura Ireo, purtroppo, è già realtà a 120km più a est, lungo un’altra strada che si estende dalla capitale di Pará a Mato Grosso, dove la foresta è quasi scomparsa completamente. La BR-155 è quasi tutta asfaltata e i suoi ranch sono imponenti e ordinati, gestiti da uomini che volano nelle migliori università del Brasile per testare la qualità dei loro terreni. È il nirvana dei cowboy, con grandi pascoli tondeggianti a perdita d’occhio.

Una settimana prima di arrivare a Novo Progresso, sono stato in un ranch al di fuori della città in espansione di Redenção. Qui ho incontrato Jordan Timo. Alto e magro, vestito con degli stivali da cowboy e un cappello bianco di paglia, mi racconta di avere creato il suo primo gregge appena fuori la riserva dei Kayapó vicino a una città chiamata São Félix do Xingu, che in Brasile è diventata sinonimo di deforestazione esplosiva (nel 1980, in città si contava un gregge di 22.500 animali, oggi è di 2.8 milioni, il più grande del Brasile).

Quando Timo è arrivato, a São Félix c’era solo la foresta. Una volta in città, ha venduto una mucca a dei minatori affamati e poi ha dormito tutta la notte con addosso un fucile Winchester per evitare di essere derubato dagli ubriaconi che uscivano dai bar e dai bordelli. Mi racconta che “c’era molta violenza. Il grande problema della frontiera è che non c’è la legge, l’elettricità, l’acqua e le scuole”. E nessuno a controllare quanta foresta stia scomparendo per mano sua o di chiunque altro. Così, a São Félix ha radunato uomini dai bordelli e dalle strade e ha promesso di pagare le loro bollette. Poi li ha condotti in un capanno. Raggruppatine quasi 200, ha assunto degli uomini armati che li hanno portati su un traghetto diretto verso il suo ranch lungo il fiume in cui sono stati obbligati a rimanere fino alla fine della deforestazione.

“Era lavoro forzato? Forse sì”, ammette Timo, “ma non c’era davvero un’alternativa, questa era la realtà delle cose”. Poi mi dice di essersi pentito di avere distrutto così tanta foresta e di averlo fatto attraverso la schiavitù. “Quando sono arrivato qui l’unica cosa che c’era, l’unica strada era la deforestazione. Anche se avessi voluto mettere in regola uno dei miei lavoratori, avrei dovuto viaggiare per più di 1000 km per firmare il libretto di lavoro, quindi ho usato i metodi che usavano tutti. Ma poi arriva un momento nella tua vita in cui pensi cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è la legge e cosa no”.

Ora Timo combatte contro la deforestazione gestendo un’azienda di software che traccia le filiere. Ci si affidano i macelli che vogliono essere sicuri che il bestiame che comprano non sia cresciuto in terre deforestate in modo illegale, nelle riserve indigene, unità di conservazione o in ranch che sfruttano la schiavitù. Nel 2016, il 46% della carne venduta in Pará è passata attraverso il suo programma di tracciamento. La percentuale dovrebbe essere più alta. Secondo la legge, i macelli attivi nello stato di Pará – in cui ci sono più di 250mila fattorie – devono tracciare le loro filiere, ma solo 63 aziende di confezionamento di carne lo hanno fatto, mentre altre 65 no. Di conseguenza, ogni giorno circa 18mila bovini vengono macellati in Amazzonia senza alcun controllo ambientale.

Timo spiega che “ci sono alcuni che stanno provando a seguire le regole, ma altri non lo fanno affatto. È più facile ed economico deforestare invece di conformarsi alla legge e non vi è una vera punizione per chi non lo fa”.

Anche chi monitora davvero le proprie filiere, come JBS, il più grande produttore di carne bovina del mondo, non ha la possibilità di sapere da dove arrivino tutti i bovini. I ranch illegali possono allevare i vitelli finché non raggiungono un certo peso, poi li vendono a un ranch autorizzato che a sua volta li rivende ai macelli. In un comunicato, la JBS ha dichiarato che “in Amazzonia adottiamo una politica deforestazione zero, e il bestiame della regione che arriva da fattorie ricavate dalla foresta non può entrare nelle nostre filiere”, aggiungendo che controllano più di 50mila fornitori e che ne hanno bloccati più di 7mila per non conformità.

Timo dice che questo problema di “fuga” o di riciclo di bestiame illegale attraverso i pascoli della deforestazione sarebbe facile da risolvere. La soluzione sarebbe applicare a ogni mucca nata in Amazzonia un semplice marchio auricolare con un microchip, un sistema che viene già utilizzato da anni negli Stati Uniti e in Canada. Sostiene che costerebbe meno di 5 dollari a capo. “Non dobbiamo creare altri strumenti di monitoraggio” sostiene Timo. “Abbiamo i mezzi. Abbiamo le leggi. Ciò che ci manca sono le risorse della polizia per reprimere chi non le rispetta”.

Un gregge avvolto dal fumo degli incendi di Novo Progresso. Secondo la legge, i macelli che operano nello stato di Pará sono obbligati a tracciare gli animali. Al momento solo 63 hanno accettato, mentre altri 65 continuano a rifiutarsi. Nel frattempo, circa 18mila capi sono macellati ogni giorno senza nessun controllo sull’impatto ambientale. Foto: Leo Correa/AP/Shutterstock.

Timo racconta che la maggior parte di allevatori di Pará prova a mettersi in regola. Il problema è che gli allevatori poveri non hanno i mezzi. A causa dell’estensione dell’Amazzonia, trasportare il fertilizzante che può mantenere i pascoli verdi per mesi dopo la stagione delle piogge ha un costo proibitivo. È molto più facile deforestare e poi spostare il bestiame in un altro prato quando tutto è deteriorato. In Amazzonia, la maggior parte dei pascoli viene abbandonata in 10 o 15 anni.

“Abbiamo molti bastoni e poche carote” afferma Marcelo Stabile, un agronomo dell’IPAM (Amazon Environmental Research Institute). “È necessario molto di più di un investimento nella produzione rurale per aiutare le persone a ricavare di più dalla terra”. Timo è d’accordo, ma sostiene che l’unica cosa che farà davvero pressione sul governo brasiliano per fare applicare la legge sono le forze di mercato. “Se non c’è l’impegno dei consumatori – e non solo del Brasile, ma di tutto il mondo – nel cercare della carne allevata in modo etico, gli allevatori di qui continueranno a scegliere la strada più facile e al momento è la deforestazione”.

Durante la mia ultima mattina a Novo Progresso decido di passare nel supermercato di Castanha per vedere se riesco a trovarlo. È la nostra ultima occasione. Fino ad ora nessuno è riuscito a organizzare un incontro. Basta pronunciare il suo nome per rendere le persone nervose.

Il suo negozio, chiamato Castanha Supermercado, occupa un intero isolato. Ci sono altre due o tre filiali a Novo Progresso, ma credo che quello appena fuori la BR-163 sia la nostra migliore occasione. Oggi ricorre una festività cattolica e il supermercato è uno dei pochi posti ancora aperti in tutta la città. La maggior parte degli uomini d’affari è partita per i loro ranch per grigliare e bere birra. Gabriel, il mio mediatore, dice che è difficile che Castanha sia nei paraggi.

Entriamo nel supermercato e chiediamo di lui. La donna che siede fuori dal suo ufficio mi guarda e alza le sopracciglia. Dà un’occhiata sopra le sue spalle verso un grande ufficio ad angolo che si trova dietro una vetrata colorata così scura che non riesco a vedere se lì dietro ci sia qualcuno o meno. La donna scarabocchia il mio nome e passa il foglio a un altro impiegato che scompare nell’ufficio.

Mentre sono seduto in una fila di siede di fronte al supermercato, Castanha compare improvvisamente. È un uomo grande, molto più alto di quanto mi aspettassi, almeno un metro e novanta, con le mani grassocce e le spalle larghe. Indossa degli stivali da cowboy e una camicia button down blu infilata nei jeans. Mi stringe la mano e mi dà il benvenuto nel suo negozio con un gran sorriso in volto.

“Non posso parlare con lei”, dice. “Il mio caso è ancora in tribunale e il mio avvocato ha detto che è meglio non parlare con la stampa”. Poi, però, si mette a parlare così velocemente che faccio fatica a tirare fuori il registratore dalla tasca. Ammette di avere deforestato, ma mette in dubbio che fosse un atto veramente illegale. Lui ama la foresta. Indica l’insegna sopra il suo negozio che mostra un collage di immagini di fiumi, coccodrilli e leopardi. Dopotutto il suo cognome è Castanha, che in portoghese vuol dire “noce del Brasile”.

Dice che la gente della sua città vuole solo guadagnarsi da vivere. Tira fuori una storia che ho già sentito e risentito qui, ovvero che il governo ha mandato qui persone come lui per colonizzare le terre. Ora cambia improvvisamente le leggi, dichiara le fattorie vietate, emette multe e distrugge l’attrezzatura. Se la prende con Castanha solo perché ha affrontato l’IBAMA.

Il suo caso deve essere ancora risolto. Ha trascorso un breve periodo in prigione, ma crede che il peggio sia passato. In ogni caso, dichiara di essere fuori dagli affari della deforestazione. Possiede i suoi supermercati e un piccolo ranch e i suoi figli vanno al college. Prima che riesca a chiedergli altro, guarda l’orologio e mi dice che è ora di andare. Mi mette una mano sulla spalla e mi ringrazia per avere visitato Novo Progresso. E mi dice di non essere il “Re della deforestazione”. Qui i media, come negli Stati Uniti, diffondono un sacco di fake news.

Qualche mese dopo ricevo un messaggio da un allevatore di Novo Progresso. Gli allevatori stanno complottando su Whatsapp per dare fuoco alla foresta lungo la BR-163. Il giornale locale riporta le parole di un allevatore: “abbiamo bisogno di dimostrare al presidente che vogliamo lavorare”. Sostengono che l’unico modo per farlo sia distruggere la foresta e proclamano il 10 agosto il “giorno del fuoco”.

Qualche giorno dopo, a più di 1600km, alle 3 del pomeriggio il cielo di São Paulo si fa scuro. “Immaginate quanto stia bruciando per creare così tanto fumo!” twitta un giornalista di nome Shannon Sims che posta una foto dei cieli anneriti. “SOS”.

La fuliggine cade dal cielo. Pennacchi giganteschi di fumo vengono ripresi dall’Agenzia Spaziale Europea. Alla fine di agosto, in tutta la foresta stanno bruciando 80mila incendi.

Il presidente della Francia Emmanuel Macron dichiara la crisi globale. Twitta che “la nostra casa è in fiamme”. Pochi giorni dopo, al summit del G7, viene offerto al Brasile un pacchetto di aiuti da 20 milioni di dollari per aiutare a fermare i roghi. Il presidente Bolsonaro lo rimanda indietro dicendo che l’Amazzonia è affare del Brasile e che ogni tentativo di intervento rimanda al colonialismo.

Gabriel è di nuovo a casa, a Manaus, la città più grande dell’Amazzonia. È in viaggio lungo il Rio Negro, uno dei maggiori immissari del Rio delle Amazzoni, e mi manda una foto dei cieli oscurati dai roghi sopra il parco nazionale. Mi racconta che la stampa brasiliana dice che gran parte del fumo arriva dagli incendi vicino a Novo Progresso. La suora che ho incontrato lungo la transamazzonica mi scrive che dove vive lei si fa fatica a respirare, ma che è normale durante i mesi secchi estivi, il periodo in cui gli allevatori bruciano la foresta.

C’è un pizzico di rassegnazione nel suo messaggio, e sento che i tentativi di aiuto fatti dalle celebrità e dai leader mondiali, sebbene ben intenzionati, siano vani. Penso a uno dei miei ultimi giorni a Novo Progresso e a ciò che mi ha detto Menezes, il capo del sindacato rurale.

“Proteggeremo il nostro stile di vita”, aveva detto. A ogni tentativo di fermarli e impedire la deforestazione risponderanno con la forza.

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