Da quando ha abbandonato Palazzo Chigi, Giuseppe Conte ha un chiodo fisso: preparare il terreno per l’ennesima giravolta ideologica del Movimento 5 Stelle. L’ex premier vuole portare a compimento nel minor tempo possibile quella trasformazione in senso istituzionale e progressista che Beppe Grillo e gli altri membri della cosiddetta “ala governista” – come Vito Crimi e Luigi Di Maio – considerano indispensabile per risollevare le sorti di un partito ormai agonizzante e privo di un’identità politica definita.
In una prima fase l’ascesa di Conte alla leadership del Movimento sembrava inarrestabile, ma gli sviluppi delle ultime settimane hanno complicato il quadro. La fine del governo giallorosso e l’ingresso del M5S nella maggioranza che sostiene Draghi hanno dato il via a una serie di scissioni che hanno ridisegnato i rapporti di forza del partito, tanto all’interno del parlamento – il M5s ha infatti deciso di espellere tutti i parlamentari che non hanno votato la fiducia al nuovo esecutivo, ossia 24 deputati e 16 senatori – quanto al suo esterno, come simboleggiato dal prevedibile coup de théâtre di Alessandro Di Battista che, lo scorso 11 febbraio, ha deciso di abbandonare definitivamente la nave perché la sua coscienza politica “non ce la fa”.
Negli ultimi giorni, la situazione è peggiorata ulteriormente a causa della querelle che vede contrapposti Conte e Davide Casaleggio, figlio del fondatore Gianroberto, capofila della cosiddetta “ala radicale” e proprietario della piattaforma Rousseau, il sito internet attraverso cui gli iscritti del Movimento 5 Stelle hanno accesso alle attività del partito e alle votazioni interne.
La posta in palio è la banca dati contenente i dati degli iscritti, imprescindibile per accelerare il difficile processo di riorganizzazione interna del partito, che al momento è bloccato da diverse criticità – anche se riconosciuto come leader in pectore, attualmente Giuseppe Conte non ha ancora ottenuto un’investitura ufficiale e, anzi, non risulta neppure iscritto al Movimento 5 Stelle. Inoltre, ottenere i dati degli iscritti è il primo passo che il M5S deve compiere per provare a ricostruire un rapporto di fiducia con i propri elettori. Elettori che, col passare delle settimane, appaiono sempre più disillusi e in calo costante.
Da un lato, il Movimento rivendica la proprietà delle informazioni sugli iscritti e sottolinea come sia “inaccettabile che un soggetto privato possa tentare di ostacolare l’attività di una forza politica del parlamento e di governo accampando pretestuose e incomprensibili motivazioni”; dall’altro, Rousseau vuole sfruttare queste informazioni per capitalizzare sul malcontento dei sostenitori della prima ora e costruire un soggetto politico indipendente che possa strizzare l’occhio ai nostalgici, mostrandosi fedele al vecchio indirizzo e, magari, ripartendo da un volto di sicuro gradimento come quello di Alessandro Di Battista. Non a caso, la piattaforma ha opposto un netto rifiuto alle richieste di Conte, ribadendo di volere “garantire il rispetto della legge, della democrazia interna e di tutti gli iscritti”.
A prescindere da quale sarà la conclusione dell’ennesima guerra civile dentro il M5S (e che sta lentamente precipitando in una guerra giudiziaria) a far sorridere è soprattutto la fragilità degli argomenti con cui le parti in causa provano a sostenere le proprie tesi.
Partiamo dalle ragioni dell’ala governista: il fatto che, in questi anni, l’attività del M5S sia stata sostanzialmente diretta da un’azienda privata è il più classico dei segreti di Pulcinella. Del resto, era lo stesso statuto del Movimento ad attribuire all’Associazione Rousseau un ruolo centrale nella guida del partito, consentendole non soltanto di incidere su questioni cruciali come il sistema di voto, l’elaborazione dei risultati, le decisioni su quando effettuare una consultazione e le modalità di formulazione dei quesiti, ma anche di esercitare un controllo indisturbato sui dati degli iscritti, dai loro nomi ai loro indirizzi email fino ai loro voti nelle consultazioni interne. Inoltre, la previsione dell’obbligo di erogare un contributo mensile per il sostentamento economico della piattaforma è forse la dimostrazione più evidente del dominio che l’associazione ha storicamente esercitato all’interno del partito. Senza esagerare potremmo spingerci a dire che, sin dalla sua fondazione, il M5S non abbia mai nascosto di essere la diretta emanazione di un’azienda privata, la Casaleggio Associati, che non si è mai posta troppi problemi in quanto a ingerenza interna.
Basti pensare al famoso caso del 2015, quando un’inchiesta del Foglio aveva puntato i riflettori sull’invasività dell’azienda, dimostrando come la posta elettronica dei parlamentari M5s fosse costantemente monitorata in spregio alla normativa sulla privacy. Il M5S ha sempre rispedito queste accuse al mittente, negandole fino all’inverosimile ed etichettando ogni problema di trasparenza come l’ennesima bufala costruita ad arte dai giornali.
Proprio la tutela della privacy è l’argomento su cui fa leva l’ala radicale. Davanti alle richieste di restituzione dell’elenco degli iscritti da parte di Conte, l’Associazione Rousseau ha ribadito la propria posizione di contrarietà, specificando che “l’elenco degli iscritti non è un tesoretto, né un pacco postale, né una proprietà per sentirsi i padroni. Gli iscritti sono cittadini attivi che hanno deciso di essere protagonisti della vita politica e verso i quali sentiamo, da sempre, una profonda responsabilità nel garantire al massimo la tutela e il rispetto dei loro diritti”.
Anche in questo caso, è sufficiente ripercorrere la storia recente del Movimento 5 Stelle per comprendere come “trasparenza” e “privacy” siano parole sconosciute al suo vocabolario politico: nel 2019, il Garante per la protezione dei dati personali ha multato Rousseau perché non garantiva la segretezza e la sicurezza del voto degli iscritti, il cui risultato poteva essere manipolato senza lasciare traccia dagli amministratori del sistema, che potevano interferire liberamente in ogni fase del procedimento elettorale. Non dovesse bastare, la piattaforma si è sempre mostrata altamente permeabile agli attacchi informatici: in passato diversi hacker hanno dimostrato quanto fosse facile penetrare nei server Rousseau. Ad esempio nel settembre 2017, in occasione della votazione per la scelta del nuovo capo politico del M5S, l’hacker Rogue_0 aveva dimostrato come fosse possibile votare innumerevoli volte hackerando i profili di diversi iscritti.
Negli anni, insomma, la declinazione grillina del concetto di democrazia diretta si è rivelata un vero e proprio fallimento, a cominciare dal principio fondativo dell’uno vale uno, svuotato di significato dalle falle di sistema che consentivano a chiunque di votare due volte per lo stesso candidato, dall’assenza di criteri di sicurezza minimi come la doppia autenticazione, dalla pubblicazione di dati sensibili degli utenti e dalla penuria di investimenti in sicurezza e capienza del server. Per tutti questi motivi, la guerra civile interna al M5s si sta trasformando rapidamente nell’ennesimo teatrino dell’assurdo, evidenziando una volta di più tutti i cortocircuiti logici di un partito cannibalizzato dalle sue stesse contraddizioni.