Nel 1968, un piccolo gruppo di accademici, industriali e funzionari governativi si è riunito in una villa a Roma per disutere del futuro dell’umanità. Si sono fatti chiamare il Club di Roma e in un documento impenetrabile pieno di grafici bizzarri e parole come “problematiche” hanno formulato un piano per analizzare i pericoli principali che l’umanità si sarebbe trovata davanti in futuro con le nuove tecnologie informatiche. “Partiamo dall’idea che questi problemi abbiano delle soluzioni”, scrivevano, e il loro obiettivo era trovarle.
Il risultato è stato un libro di 200 pagine intitolato I limiti dello sviluppo, pubblicato nel 1972, che ha cambiato per sempre il nascente movimento ambientalista. La tesi era semplice: il pianeta semplicemente non era in grado di sostenere i tassi correnti di crescita economica e demografia. “Il risultato più probabile”, prevedeva il gruppo, “sarà un declino piuttosto improvviso e incontrollabile sia della popolazione che della capacità industriale”. In altri termini, l’umanità doveva frenare o ci sarebbe stato il collasso della società per come la conoscevamo.
Il libro era stato accolto con sdegno dai media mainstream. Tre economisti sul New York Times l’avevano definito un “lavoro vuoto e ingannevole” che era “poco più che fiction polemica”. Henry Wallich, economista e firma di Newsweek, aveva scritto che era “irresponsabile e insensato”.
Eppure le idee uscite da quel meeting a Roma avevano guadagnato trazione. Un anno dopo, un geologo chiamato a testimoniare di fronte al Congresso aveva detto che “chiunque creda che la crescita possa andare avanti per sempre è un pazzo o un economista”. Lo storico ambientale David Worster ha scritto nel 2016 che I limiti dello sviluppo era stato “il libro che aveva gridato ‘al lupo’. Il lupo era il declino del pianeta, ed era un lupo vero”.
Mezzo secolo dopo, il futuro del nostro pianeta non appare radioso. Da quando il libro è stato pubblicato, la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata da 327 parti per milione nel 1972 a 416 parti per milione oggi. (La comunità scientifica aveva avvertito che superare le 350 parti per milione voleva dire rischiare pericolosi fenomeni di riscaldamento globale). Le temperature mondiale, nel frattempo, sono aumentate di circa 1 grado Celsius rispetto all’età pre-industriale – portando a eventi metereologici estremi, ondate di calore catastrofiche nell’Artico e livelli del mare in costante ascesa. L’anno scorso, un report delle Nazioni Unite ha rivelato che gli esseri umani stanno cambiando il pianeta così tanto da minacciare di estinzione più di un milione di altre specie.
Una delle preoccupazioni principali del Club di Roma – che la crescita smodata della popolazione porti alla distruzione dell’ambiente – è passata di moda negli ultimi anni. (Dopotutto, i tassi di natalità nei Paesi sviluppati, che sono quelli che usano più risorse e danneggiano di più l’ambiente, sono in declino). Ma la crescita economia è tutt’altra cosa. Per decenni, gli ambientalisti hanno discusso sul fatto se la produzione di sempre più merci, anno dopo anno, fosse la responsabile per la crisi in cui si trova il pianeta. Il movimento ambientalista si è diviso tra chi crede che la crescita possa continuare a condizioni nuove e più sostenibili, e una minoranza sempre più accesa secondo cui questa “crescita verde” è un ossimoro o peggio una fantasia.
Questi due campi, per il momento, sono ancora alleati e lavorano per lo scopo comune della conservazione ambientale e dello sviluppo di energie pulite. Ma oggi che la pandemia da coronavirus ha messo in ginocchio l’economia globale, che dovrebbe contrarsi del 6% quest’anno, il dibattito sulla crescita è tornato al centro del’attenzione. 50 anni dopo I limiti dello sviluppo, molti economisti e ambientalisti stanno riconsiderando le lezioni di quel libro, chiedendosi se la crescita economica sia effettivamente compatibile con la sostenibilità – e, se non lo è, come si può altrimenti misurare il successo e il fallimento delle società moderne.
I sostenitori di questa crescita verde affermano che le nuove tecnologie unite a una svolta verso i servizi possano contribuire a rendere la crescita più sostenibile. Questo tipo di mentalità è diventata il modo dominante in cui pensiamo a come cambiare la gigantesca economia mondiale basata sui combustibili fossili.
Ma altri pensano che la crescita economica, non importa quanto verde, metta in pericolo il pianeta. Credono che i governi dovrebbero o contrarre apposta le proprie economie – un’idea spesso chiamata “decrescita” – o perlomeno non crescere ulteriormente. “La crescita materiale non può continuare all’infinito perché il pianeta Terra è limitato”, ha scritto l’economista e attivista ecologista Tim Jackson nel suo libro del 2009, Prosperità senza crescita. “Vivere bene su un pianeta finito non può semplicemente comprendere il consumare sempre più roba”. (Il Club di Roma, da parte sua, aveva suggerito che il collasso della civiltà si sarebbe potuto evitare se la società fosse riuscita ad accettare di imporsi dei limiti.)
Il campo della decrescita è rimasto minoritario nel piensiero ambientalista. Negli ultimi anni, tuttavia, con l’intensificarsi della crisi climatica, la sua critica è arrivata nel mainsteam con una serie di libri e conferenze sul tema. L’idea ha trovato anche una casa tra i circoli di attivisti: è popolare tra i membri di Extinction Rebellion, che lo scorso ottobre hanno bloccato la city di Londra con proteste contro la debole risposta del governo alla crisi climatica. La si può sentire nei discorsi di Greta Thunberg: “Siamo all’inizio di un’estinzione di massa, e tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favolette sulla crescita economica eterna”, ha detto l’anno scorso al summit sul clima delle Nazioni Unite. “Come vi permettete!”
Altri nel movimento ecologista hanno un approccio più moderato, sostenendo una rivalutazione delle priorità (sanità e educazione invece che profitti per le multinazionali) invece che la contrazione dell’economia. Tim Jackson, il già citato autore di Prosperità senza crescita nonché professore all’Università di Surrey in Inghiltera, si considera un sostenitore di questo approccio, che suggerisce l’allontanarsi dalla crescita invece che il tentare attivamente di sopprimerla. “Non sarebbe meglio”, scrive, “fermare la ricerca perenne della crescita nelle economie avanzate e concentrarsi invece sul condividere le risorse disponibili in modo più equo?”
Al centro dei dibattiti tra crescita verde e decrescita c’è una semplice domanda: l’economia mondiale – il gigantesco motore che ha passato secoli a consumare combustibili fossili e produrre merci – può essere separata dalla distruzione ambientale?
Storicamente, le grandi industrie hanno usato carbone e petrolio, e quindi l’inquinamento e specialmente le emissioni di monossido di carbonio hanno seguito come un’ombra lo sviluppo economico. Durante le fasi di crisi, come la Grande Recessione, le emissioni calano – a volta in modo precipitoso – solo per riprendere non appena l’economia riparte. Prendiamo ad esempio la pandemia da coronavirus: quando ad aprile milioni di persone hanno perso il lavoro negli Stati Uniti, le emissioni di monossido di carbonio sono calate del 17%. A metà giugno, però, con le macchine che tornavano per le strade e i negozi e le fabbriche che riaprivano, le emissioni erano già tornate quasi ai livelli pre-pandemia.
I critici della crescita economica, tuttavia, considerano questi casi come eccezioni. Separare le emissioni dalla crescita è qualcosa “completamente fuori dall’esperienza storica” ha detto Jackson a Rolling Stone. “Questo non vuol dire che tecnicamente non si possa fare, ma vuol dire che è incredibilmente difficile e che è qualcosa di molto diverso da ciò che abbiamo fatto finora”.
Secondo Jackson, anche se Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno temporaneamente separato crescita ed emissioni, il quadro generale non è cambiato più di tanto. Nei circa 25 anni da quando i Paesi industrializzati hanno firmato il Protocollo di Kyoto promettendo di ridurre le emissioni, l’inquinamento da combustibili fossili è aumentato del 50%. E dal 2016 le emissioni hanno ricominciato a salire.
E se invece per separare le crescita dall’inquinamento ci volesse solo più tempo e più tecnologia – batterie migliori, ad esempio, o pannelli solari meno costosi? Secondo Cameron Hepburn, professore di Economia ambientale a Oxford, ci sono precedenti storici di società che sono riuscite a rimpiazzare tecnologie molto inquinanti con altre più efficenti e pulite senza sacrificare la crescita. “La cosa che rifiuto di più è l’idea che siccome non è stato ancora fatto sia impossibile”, spiega Hepburn, facendo notare che anche la decrescita non è mai stata provata – e quindi che la scelta è tra due strade ipotetiche.
Eppure, per molti ambientalisti è difficile accettare l’argomento di Hepburn. Certo, la crescita verde in teoria sembra qualcosa di fantastico ma la trasformazione dell’economia in tal senso dovrebbe avvenire in modo estremamente veloce per evitare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Quest’anno, la pandemia di coronavirus dovrebbe tagliare le emissioni globali di qualcosa tra il 5 e l’8% – la diminuzione più grande dalla seconda guerra mondiale. Ma per tenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi Celsius, la soglia limite fissata dalla maggior parte degli scienziati, la diminuzione dovrebbe essere del 7,6% ogni anno fino al 2030. Niente di simile è mai accaduto nella Storia.
I sostenitori dela decrescita, ovviamente, non ignorano la povertà globale. Anzi, molti pensano che i Paesi in via di sviluppo dovrebbero continaure a crescere per tirare fuori dalla povertà la loro popolazione, anche se ciò causa un aumento delle loro emissioni. Per bilanciare l’impatto di tutto ciò su scala globale, l’antropologo della London School of Economics Jason Hickel sostiene che i Paesi ricchi dovrebbero fare di più con meno. Gli Stati Uniti, ad esempio, producono ogni anno circa 65mila dollari di beni e servizi per ogni abitante. “Immagina tagliare il PIL pro capite degli Stati Uniti a meno della metà delle sue dimensioni attuali, in termini reali”, ha scritto Hickel in un post sul suo blog. Una tale riduzione metterebbe gli americani più o meno alla pari con gli europei. “Io vivo in Europa”, ha aggiunto Hickel. “Non è certo una distopia”.
Certo, tagliare a metà un’economia non suona particolarmente attraente se stai già facendo fatica a tirare avanti. Il 40% delle famiglie americane guadagnano meno di 40mila dollari l’anno, e il 15% meno di 20mila. È difficile immaginare di dire a queste famiglie di ridurre ancora la loro ricchezza quando l’1% degli americani guadagna almeno 500mila dollari all’anno e possiede circa il 40% della ricchezza del Paese.
“La maggior parte degli economisti e dei politici affermano che non c’è alternativa, che dobbiamo crescere per forza in un’economia di mercato”, ha detto Victor a Rolling Stone, “Be’, è una prospettiva che ti annebbia la mente e cancella tutto il resto. Noi cerchiamo di rendere questi modelli disponibili così che la gente possa farsi un’idea di quali sono le alternative reali”.
Mentre l’idea di ridurre di proposito la propria economia è ancora una posizione minoritaria, sempre più pensatori stanno abbracciando l’idea di un mondo “post-crescita” o che smette di usare la crescita economica come la misura principale del benessere delle società. Jackson, per esempio, vuole concentrarsi sulla “prosperità” che può includere il coltivare il proprio cibo e produrre i propri vestiti, camminare, leggere, e costruire relazioni. “Continuo a pensare che alla fine della fiera il PIL sta schiacciando tutto il resto”, afferma, “tutte le decisioni che vorresti prendere sulla qualità delle vite delle persone o sul fare qualcosa per i cambiamenti climatici. Sono state tutte spazzate via dalle preoccupazioni per il PIL”.
E non è il solo. Anche Kate Raworth, economista dell’Università di Oxford, ad esempio, sostiene che l’economia ideale dovrebbe tenere conto dei limiti ecologici fornendo casa, sanità, educazione, cibo e via dicendo senza compromettere l’aria, l’acqua e il suolo. Herman Daly, professore di Economia all’Università del Maryland, ha proposto un’economia “stazionaria” che non cresce né si contrae. (È qualcosa di simile all’idea di John Stuart Mill di “stato stazionario” che può supportare “il progresso sociale e morale” e dare spazio “al miglioramento dell’arte del vivere”).
E alcuni Paesi stanno cominciando ad avvicinarsi a visioni alternative di cosa vuol dire essere società di successo. Sotto il governo di Jacinda Ardern, che di recente è diventata famosa per avere eliminato il COVID-19, la Nuova Zelanda ha creato un “budget per il benessere” complementare al PIL, che comprende 61 indicatori come la fiducia nel governo, la qualità dell’acqua, la soddisfazione generale, il tasso di disoccupazione. Il Bhutan sin dagli anni Settanta misura la “felicità nazionale lorda” tenendo conto degli standard di vità, della salute, dell’educazione e del benessere psicologico.
Potrebbe esserci anche un’altra ragione per cui queste alternative stanno guadangando popolarita, almeno tra gli accademici. Nonostante gli sforzi dei governi, negli ultimi decenni la crescita è diminuita, specialmente per i Paesi sviluppati. Il tasso di crescita globale più alto mai registrato è stato del 4,15% nel 1964. Dal 20016, la crescita globale non ha mai superato il 2%.
“È incredibile”, afferma Danny Dorling, professore di Geografia all’Università di Oxford, “ogni decennio c’è meno crescita del decennio prima. E ogni volta che succede, la gente dice, ‘Oh, è dovuto alla crisi petrolifera’, oppure, ‘Oh, è dovuto alla crisi del 2008’. Ma io penso che ci stiamo avvicinando da tempo alla crescita zero”.
Dorling pensa che stiamo per raggiungere la fine della “grande accelerazione” – il periodo di aumento demografico e di prosperità che è seguito alla seconda guerra mondiale. Allo stesso modo, l’economista dell’Università di Princeton Robert Gordon ha scritto nel suo The Rise and Fall of American Growth che il periodo tra il 1870 e il 1970 è stato un “secolo speciale” in cui rapide innovazioni tecnologiche (luce elettrica, scarichi del wc, automobili) e nuove fonti di energia hanno sospinto la crescita economica. Questo secolo, sostiene Gordon, è stato eccitante e unico – praticamente per migliaia di anni prima del 1770 non c’è stata alcuna crescita economica – ed è anche irripetibile.
Dorling non pensa che la fine della crescita sia per forza una brutta cosa. “Se pensi che l’economia possa e debba crescere di anno in anno”, scrive Dorling nel suo nuovo libro, Slowdown, “allora considererai la riduzione sincronizzata di oggi come terrificante, al pari del rumore dei freni che entrano in azione su un treno”. Ma la fine della crescita potrebbe offrire anche opportunità di vivere e lavorare in modo diverso. “Non è la fine della Storia”, continua Dorling, “è solo la discesa dopo la salita”.
La pandemia da coronavirus ha aggiunto un senso di urgenza a tutte queste discussioni sulla crescita eocnomica. Lo scorso maggio, un gruppo di oltre 1100 sostenitori della decrescita ha firmato un manifesto che chiede ai governi di sfruttare l’occasione per muoversi verso un “tipo radicalmente diverso di società” invece che tentare dispreatamente di rimettere in moto la macchina distruttiva della crescita.
Quando tutto sembra cadere a pezzi, la questione di come ricostruire diventa più pressante che mai. Solo negli Stati Uniti, quasi 33 milioni di persone sono rimaste senza lavoro e altri 8 milioni non lo cercano nemmeno più. Secondo studi recenti, il PIL del Paese si è contratto del 9,2% tra aprile e giugno, il dato peggiore di sempre. Nel frattempo, la Banca Mondiale ha predetto che il COVID-19 potrebbe spingere 71 milioni di persone in stato di estrema povertà.
Per alcuni, il virus ha rinforzato la convinzione che le idee nate con il Club di Roma fossero sbagliate: ridurre la crescita economica non risolverà i problemi principali del mondo. Hepburn, economista a Oxford, ha fatto notare che anche le recessioni più profonde non riescono a rallentare le emissioni per molto tempo. “Basta guardare al rimbalzo che sta già avvenendo oggi”, ha detto, “le emissioni della Cina sono già tornate al livello pre-coronavirus”. In più, la difficoltà nell’imporre e mantenere i lockdown mostra la grande sfida insita nel convincere un’intera società a vivere con meno. “L’idea che possiamo cedere volontariamente parte di quello che abbiamo per il benessere dell’ambiente è pura fantasia”, afferma. “La gente non vuole rinunciare a quello che ha”.
Ma per altri, il COVID-19 e la devastazione dell’econonomia che ha causato, unito alla breve pausa che ha dato dalle emissioni, indica problemi molto profondi. Dopotutto alcuni dei Paesi più ricchi del mondo – tra cui gli Stati Uniti – hanno fallito miseramente nel compito di proteggere i loro cittadini più poveri e vulnerabili da una malattia infettiva. “C’è già una tendenza a tornare in fretta alla normalità”, ha detto Jackson. “Ma c’è anche una finestra moltro stretta che ci permette di dire: ‘ciò a cui vogliamo tornare di corsa è davvero normale?'”.
Questo articolo è apparso originariamente su Rolling Stone US, in collaborazione con Grist