Un anno fa, dal punto di vista del clima, la situazione era pessima. Il presidente degli Stati Uniti credeva che il cambiamento climatico fosse una bufala e che gli scienziati stessero cospirando contro di lui. Nell’Oregon, quando si era discusso di una legge per tassare le emissioni, i Repubblicani se n’erano andati er evitare di votare. A livello internazionale, l’inerzia positiva generata dall’accordo di Parigi sul clima si era dissipata. In Brasile, migliaia di chilometri quadrati di foresta amazzonica venivano distrutti per far spazio all’agricoltura e all’allevamento. E nell’Artico si stabiliva un record: sulla rotta del mare del Nord, quasi completamente libera dal ghiaccio, passavano 32 milioni di tonnellate di merci. Il mondo stava scivolando verso la catastrofe climatica.
Poi è arrivato il coronavirus. Un piccolissimo virus, così piccolo che 10 trilioni di lui pesano meno di una goccia di pioggia, ha fermato tutto. La gente si è chiusa in casa e ci è rimasta per un anno, a prendersi cura delle persone amate e a piangere i cari perduti. La maggior parte di noi non ha preso aerei, non è uscita a cena, non è andata a ballare. Molti hanno perso il lavoro, la casa, i risparmi, la speranza. Il peso che il virus ha imposto a cuori, menti e anime è incalcolabile.
Quello che si può calcolare, invece, è il peso che i lockdown hanno imposto alla nostra economia basata sui combustibili fossili. In Texas gli impianti di produzione di gas naturale sono stati costretti a fermarsi, portando i piccoli produttori alla bancarotta. Mentre il turismo si fermava e le auto rimanevano parcheggiate, il prezzo del petrolio è crollato. All’inizio del 2020 il prezzo di un barile di petrolio era intorno ai 60 dollari al bari. Ad aprile era sotto lo zero. Ad agosto il declino era stato così veloce che la ExxonMobil, un tempo l’azienda simbolo del secolo americano, cessava di far parte dell’indice S&P 500 perché non era più tra le maggiori 500 aziende statunitensi.
Il collasso dei combustibili fossili ha avuto un impatto visibile sul nostro mondo. L’inquinamento dell’aria è stato cancellato da un momento all’altro e siamo tornati a vedere i cieli azzurri. Il traffico è scomparso e per le strade delle città si vedevano gli animali. Ma più di tutto, da una prospettiva globale, le emissioni di CO2 sono diminuite del 7%, la più grande diminuizione dalla seconda guerra mondiale. In pochi mesi, in pratica, il virus ha ottenuto più di 30 anni di negoziati sul clima. Ha rimesso le nazioni del mondo in carreggiata per tagliare le emissioni abbastanza in fretta da garantire la sopravvivenza del pianeta.
Ma ovviamente la pandemia non può essere una strategia. Perché sì, le emissioni sono diminuite, ma sono anche morti 2,6 milioni di persone.
Ora che i tassi di vaccinazione aumentano e l’attenzione politica si sposta sul far ripartire l’economia, la grande domanda che pende come una spada di Damocle sul destino della civiltà umana è: il mondo tornerà a vivere come in passato o la pandemia sarà il punto di svolta verso una transizione ecologica inarrestabile e le emissioni di Co2 raggiungeranno il picco? Dalla sofferenza e le difficoltà della pandemia nascerà un mondo nuovo? Per evitare la catastrofe climatica, le nazioni industriali del mondo devono tagliare le emissioni di CO2 del 50% entro il 2030 e raggiungere lo 0 entro il 2050. Sarebbe ricordare il 2020 come l’anno della svolta.
Ma non è facile essere ottimisti. L’industria dei combustibili fossili è pensatemente immischiata nella politica di tutte le nazioni industrializzate del mondo. È più facile ccostruire l’ennesimo gasdotto – qualcosa che chiunque sa costruire e usare – che non investire nell’energia eolica offshore, che richiede di pensare in un modo diverso. E la costruzione di gasdotti invece che pale eoliche è più o meno ciò che si è fatto dopo la crisi finanziaria del 2008, quando i governi delle principali economie mondiali hanno pompato centinaia di miliardi di dollari nell’economia e l’hanno riccostruita più o meno uguale a com’era prima.
Alcuni segnali fanno già pensare che succederà di nuovo. Nel dicembre 2020, le emissioni mensili di Co2 a livello globale erano più alte del 2% rispetto al 2019. In Cina, la nazione che inquina di più al mondo (ma anche la più popolosa; le emissioni di CO2 pro capite sono molto più alte negli Stati Uniti) le emissioni di Co2 sono aumentate del 4% nella seconda metà del 2020. Alla fine del 2020 Cina, India e Brasile – tre tra i Paesi che inquinano di più al modno – avevano già superato le loro emissioni del 2019. “Questa cosa ci ricorda fortemente che c’è un bisogno urgente di accelerare la transizione ecologica globale”, ha detto Fatih Birol, direttore esecutivo dell’International Energy Agency.
Major economies led the worrying resurgence in CO2 emissions, with China, India & Brazil all above 2019 levels by the end of the year – and the US approaching them.
This is a stark reminder of the urgent need to accelerate global clean energy transitions: https://t.co/VUjbUyH7dy pic.twitter.com/xzxumNhVJq
— Fatih Birol (@fbirol) March 2, 2021
Ma, cosa ancora più importatne, gli obiettivi più ambiziosi tra quelli che le nazioni si sono date prima del summit COP26 dell’ONU tenutosi a Glasgow lo scorso novembre non sono abbastanza per raggiungere l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro i 2 grandi Celsius – figuriamoci per contenerlo entro 1,5 gradi. Per ora solo 75 Paesi, che rappresentano il 30% delle emission globali, hanno annunciato i nuovi obiettivi. Un recente report dell’ONU ha affermato che anche se tutti questi obiettivi venissero raggiunti (cosa improbabile) il taglio delle emissioni entro il 2030 sarebbe solo del 1%. E non del 50% che serve.
“I nostri leader stanno deludendo completamente l’umanità”, ha scritto su Twitter Greta Thunberg. “E i media glielo stanno permettendo”.
E per finire, c’è il problema del cosiddetto “stimolo verde” ossia pacchetti economici che le principali nazioni del pianeta stanno proponendo per far ripartire le loro economie dopo il Covid. Un recente paper di Nature ha analizzato i target di investimento contenuti in questi pacchetti e concluso che, con poche eccezioni, “nella maggior parte dei Paesi, compresi Stati Uniti e Cina, gli investimenti continuano a essere grandemente dominati dai combustibili fossili”.
Un altro studio dell’azienda di consulenza inglese Vivid Economics ha affermato che i pacchetti di stimolo di 30 Paesi chiave ammontano in totale a 14,9 bilioni di dollari, di cui solo 4,6 bilioni vanno a settori collegati al clima – tra cui l’industria, l’energia, i rifiuti, l’agricoltura e i trasporti. Di questi, solo 1,8 bilioni vanno a progetti che avranno un impatto positivo sul clima, sotto forma di riduzione delle emissioni di CO2, maggiore efficenza o riduzione dell’inquinamento. Invece, circa 2,8 bilioni vanno a settori che aumenteranno le emissioni o l’inquinamento. Secondo lo studio, questi nuovi pacchetti economici saranno addirittura inferiori alle spese per la transizione ecologica fatte dopo la crisi del 2008. Solo il 12% delle spese dei pacchetti economici di oggi va verso progetti a basso impatto ecologico, mentre dopo il 2008 era il 16%.
Ma tutto questo si può guardare anche da un’altra angolazione. Prima di tutto, ciò che importa verametne non è se le emissioni di CO2 raggiungeranno il picco nel 2020 o nel 2019 o nel 2021. Ogni molecola di CO2 che emettiamo nell’atmosfera scalda il pianeta e aumenta i rischi per il cclima. Il cambiamento climatico è dunque un problema che riguarda l’accumulo di emissioni nel tempo. Ciò che importa è il trend a lungo termine, non ciò che succede in un singolo anno. Più tempo ci vuole a far cominciare la diminuzione delle emissioni, più velocemente bisognerà ridurle per arrivare a zero entro il 2050. È la strada verso quel punto che è importante. Va bene guidare e volare di meno, va bene mangiare meno carne, va bene non finanziare nuovi impianti a carbone. Va soprattutto bene costruire un movimento ambientalista politicamente attivo. Ma non bisogna lasciare che gli eventi positivi e negativi del giorno distraggano dallo scopo finale, che è la distruzione dell’intera infrastruttura basata sui combustibili fossili e la sua ricostruzione a base di energia pulita.
I combustibili fossili sono un castello di sabbia che aspetta solo di venire sciolto dall’onda dell’innovazione e dell’azione politica. Le prime avvisaglie di un mondo senza combustibili fossili si vedono già ovunque: il costo dell’energia solare ed eolica è crollato nell’ultimo decennio. In alcune parti del mondo, l’elettricità prodotta dall’energia solare è già meno costosa di quella prodotta dal carbone. La Cina si è impegnata ad azzerare le sue emissioni nette entro il 2060. General Motors, la principale azienda automobilistica statunitense, ha promesso di produrre solo auto elettriche entro il 2035. Volvo ha promesso di farlo entro il 2030. Uno dei maggiori gruppi di lobby per l’industria petrolifera e del gas naturale sostiene l’introduzione di una carbon tax. Nel frattempo, le ingiustizie dcausate dalla crisi climatica diventano sempre più visibili e c’è sempre più gente che pretende un’azione politica per risolverle.
Ma a questo punto, se la pandemia segnerà la transizione verso una nuova lotta ambientalista, c’è bisogno dell’azione politica. E l’azione politica deve venire da Biden. Gli Stati Uniti sono l’unico Paese che ha i soldi e il potere politico per accelerare la transizione e spingere l’economia mondiale in una nuova direzione. Ora che il pacchetto di stimoli post-Covid è passato al Senato e che Biden si prepara a far partire il suo piano di spesa da 2 bilioni per clima e infastrutture, è il momento dell’azione. I dettagli di tale piano non sono stati ancora resi pubblici, ma ci si aspetta che includa investimenti in strade, energia pulita e nell’adattare il Paese ai cambiamenti climatici. In breve, lo scopo è velocizzare la fine dei combustibili fossili e prepararsi alla vita in un mondo sempre più caldo.
Ma alla fine, la lotta ambientalista è sempre stata qualcosa di più della tecnologia o della conta di quanta CO2 rilasciamo nell’atmosfera. È una lotta contro l’inazione politica ed economica; si tratta di trovare il modo per far cambiare direzione a tutta l’economia mondiale. Si tratta anche di pensare al mondo in cui viviamo e ai nostri rapporti con gli altri. “Penso che la pandemia abbia svegliato le perosne mettendole davanti a quanto è fragile la vita, a quanto sono collegate le nazioni una con l’altra, a quanto ogni cosa che succede nel mondo ci riguardi tutti”, mi ha detto poche settimane fa John Kerry, inviato speciale per il clima degli Stati Uniti.
Suona retorico, come un tentativo di appiccicare per forza un lieto fine a una pandemia devastante, ma mi piacerebbe vivere in un mondo che è davvero così.
Questo articolo è apparso originariamente su Rolling Stone US