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I giovani in gabbia, tra falso reddito di cittadinanza e il restare “bamboccioni” a vita

La misura dei 5 Stelle dà risorse alla "classe disagiata" con una mano ma le toglie con l'altra. Intanto le opposizioni si guardano bene dall'affrontare il problema, e sfottono

Foto IPA

Come reagireste se un vostro amico passasse dieci anni della sua vita a dirvi che un giorno si sarebbe comprato una Porsche, poi si presenta con il pandino verde acqua del nonno – lunga vita a entrambi –, vi guarda negli occhi e vi dice “allora, ti piace la Porsche”? È più o meno quello che il Movimento 5 Stelle fa quotidianamente: promettere il mondo, rimangiarsi le parole date e poi darci sopra una bella spolverata di retorica per fare diventare le alleanze “governo del cambiamento”, gli accrocchi contabili “manovra del popolo” e i condoni “pace fiscale”.

Peggio ci si sente quando il fumo avvolge gli occhi che cercano di capire cos’è e cosa cambierà con il tanto sbandierato reddito di cittadinanza. Beppe Grillo ne parla dagli albori, ed è uno dei motivi che hanno fondato il grande equivoco per cui il movimento avrebbe un’anima di sinistra: il reddito di cittadinanza – almeno altrove – presuppone una visione della società come comunità, e si fonda sulla convinzione che il mercato del lavoro stia profondamente cambiando e per questo sia necessario pensare a un nuovo tipo di “retribuzione”. Un’idea alta della politica, proprio come quella che molti avevano attribuito alla fase “sansepolcrista” del Movimento.

Peccato che per come è diventato oggi – dopo la presentazione show modello Telemarket da parte del ministro del Lavoro – il reddito di cittadinanza non assomigli nemmeno lontanamente a quelle belle cose. «Anzitutto non è universale, un tuo diritto in quanto cittadino. Inoltre è vincolato al modo in cui decidi di consumare la cifra che ti viene assegnata e all’accettazione di proposte di lavoro calate dall’alto, secondo modalità che sono ancora tutte da capire. E poi per ora i soldi stanziati sono pochi», commenta Raffaele Alberto Ventura.

Il suo ultimo libro, Teoria della classe disagiata, è stato un caso letterario, l’illuminante racconto di una generazione “troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle” in cui molti hanno potuto riconoscersi. Di quella generazione – chi è entrato nel mercato del lavoro negli ultimi anni – ogni politico giura di occuparsi, a cominciare dal M5S con il loro reddito di cittadinanza.

«Il problema è che questa misura rischia di dare ai giovani i soldi con una mano e toglierglieli con l’altra, sotto varie forme», dice Ventura. «Perché prima o dopo la questione del debito pubblico si porrà, quando i soldi stanziati dovranno essere restituiti con gli interessi. Il tutto, è facile prevedere, a scapito della spesa pubblica: arriveranno i tagli al welfare, alla sanità e all’istruzione. Servizi che appartengono a tutti, anche alle nuove generazioni». Secondo Ventura, paradossalmente, finirà per rivelarsi una misura fortemente neoliberista. «Se smantelli il sociale e dai i soldi direttamente alle persone, invitandoli a spenderli, io non ci vedo grandi benefici per il sistema».

Ma c’è persino di peggio. Perché il reddito di cittadinanza in salsa gialloverde è riuscito nell’impresa di abbassare ulteriormente il livello del dibattito attorno alla questione dell’occupazione giovanile, alla massa enorme di ragazzi che in Italia non ha un lavoro o le condizioni che si meriterebbe, che deve scappare all’estero o rimanere chiusa in casa da mammà.

E così una volta di più, dopo essersi presi per anni dei “bamboccioni” o dei “ragazzotti choosy”, i giovani sono bersaglio di prese in giro più o meno velate. Da giorni si sente ai Tg o si legge sui social che il reddito di cittadinanza sarà un grande incentivo per un esercito di giovani fancazzisti per non alzarsi più dal divano, e passare poi all’incasso a fine mese. La “classe disagiata” subisce ancora, e rimane cinta d’assedio «tra chi dice di fare un provvedimento a suo favore che tale non sarà, e chi ripropone il solito ritornello dei fannulloni».

Come spesso accade, a brillare per acume e profondità dei contenuti polemici sono autorevoli esponenti del Partito Democratico. «L’opposizione dovrebbe rendersi conto che, visto che si tratta di un “semplice” sussidio di povertà, in un Paese che ha un serio problema per via del numero crescente di persone in stato di indigenza e un’urgenza di redistribuire le ricchezze in maniera più equa, certe critiche risultano particolarmente sgradevoli, oltre che perdenti da un punto di vista elettorale».

Nelle scorse ore i vertici di Confindustria e il numero uno dell’Inps Tito Boeri sono andati oltre, e hanno detto che il reddito scoraggerebbe la ricerca di lavoro da parte dei ragazzi: i 780 euro al mese che dovrebbero ricevere – la questione delle cifre è ancora tutta da chiarire – sarebbero di poco inferiori agli 830 euro circa, che rappresenta oggi lo stipendio medio degli under 30.

«Salari da fame e condizioni di lavoro ricattatorie sono quello di cui bisognerebbe parlare», conclude Ventura. «Cause e responsabilità sono varie, legate alla storia e allo stato di salute del capitalismo globale e di quello italiano. Oltre che (è uno dei temi al centro del libro di Ventura, ndr) di quel patto infernale tra domanda a offerta, per cui i datori di lavoro cercano di pagare sempre meno e i lavoratori, non sempre e non soltanto per ragioni di vera necessità, accettano. Invece sviliamo il ragionamento nella polemica politica, su un provvedimento che non assomiglia a quello per cui era nato».

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