La Regina Elisabetta non era solo un simbolo, ma una politica abilissima | Rolling Stone Italia
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La Regina Elisabetta non era solo un simbolo, ma una politica abilissima

L'antipatia nei confronti delle politiche 'socialmente divisive' di Margaret Thatcher, le ambiguità sull'eredità del colonialismo, la lotta contro l'indipendentismo scozzese, le ingerenze nel parlamento britannico e i tentativi di nascondere all'opinione pubblica gli investimenti e l'entità del patrimonio della Corona: Her Majesty non è stata soltanto un'icona pop tutta vestiti e cagnolini, ma una leader risoluta che ha insegnato al mondo l'arte del soft power

La Regina Elisabetta non era solo un simbolo, ma una politica abilissima

Foto di Toby Melville - WPA Pool/Getty Images

La morte della Regina Elisabetta è un lutto che l’immaginario occidentale elaborerà con grande fatica: la fine di Her Majesty, la sovrana più longeva nella storia del Regno Unito, segna il tramonto non soltanto di una vera e propria icona della cultura pop dello scorso secolo, ma anche – ed è forse il tratto che, nelle ultime ore, è stato maggiormente sottostimato dai panegirici che alcuni giornali le hanno dedicato – di una figura politica di assoluto rilievo, testimone di sconvolgimenti politici e sociali talmente dirompenti da riuscire a cambiare le traiettorie della Storia.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Elisabetta non è stata soltanto una mera icona folkloristica tutta vestiti e cagnolini: esaminare il suo operato adottando questa lente è un errore imperdonabile, perché porta a sminuire l’eredità politica di una testimone del secolo irripetibile.

In oltre settant’anni anni di regno, festeggiati lo scorso giugno con il Giubileo di platino, Lilibet – prendendo in prestito il vezzeggiativo con cui veniva chiamata dai genitori – ha visto susseguirsi 15 diversi primi ministri, prendendo parte in prima persona ai mutamenti che hanno stravolto la società britannica prima e quella occidentale poi. C’era nel 1952, quando sfidò lo scetticismo di Winston Churchill, grande ammiratore dell’operato di Giorgio VI e leader impaurito dall’inesperienza di una regnante che si apprestava a salire al trono più prestigioso d’Europa ad appena 25 anni; c’era nel 1979, quando Margaret Thatcher diede avvio alla stagione delle privatizzazioni, dei tagli alla spesa pubblica e alle tasse e delle politiche pubbliche sempre e comunque a sostegno dell’offerta, trasformando il neoliberismo nell’ideologia dominante di questo secolo (il rapporto tra le due iron ladies non è mai stato facile: non è un mistero che Elisabetta abbia a più riprese espresso una certa riluttanza verso l’agenda Thatcher, ad esempio rimproverandole la mancanza di una pre­sa di posizione forte contro l’apar­theid in Sudafrica e attribuendole un eccessivo cinismo in tema di economia, etichettando le sue politiche come “socialmente divisive” e condannando il braccio di ferro con i minatori); c’era nel 2016, osservando in prima persona l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, la clamorosa débâcle di David Cameron e l’andirivieni di nuovi inquilini conservatori a Downing Street che, da 6 anni a questa parte, si affannano nella disperata ricerca di un piano di uscita coerente con le aspettative dell’elettorato.

Ha assistito con calma olimpica allo smantellamento del British Empire, alle tensioni della Guerra Fredda, alla caduta del muro di Berlino, alla resa dei conti con il passato colonialista del Regno Unito – una questione che, nel Commonwealth, produce ancora diversi strascichi ancora oggi, se pensiamo che solo qualche settimana fa la senatrice australiana Lidia Thorpe l’ha definita senza mezze misure una “colonizzatrice” e il viceministro della Difesa e della Repubblica, Matt Thistlethwaite, ha dichiarato al quotidiano Nine che giurare fedeltà alla Regina è «arcaico e ridicolo» – e al crollo del comunismo.

Lidia Thorpe calls the Queen a coloniser while making oath of allegiance

Più di ogni altra cosa, agendo sempre e comunque a porte chiuse, ha smentito il falso mito secondo cui la Regina darebbe esecuzione a una funzione puramente simbolica, senza occuparsi mai di questioni politiche. Nulla di più falso: in tre quarti di secolo, Elisabetta ha esercitato un ampio soft power che ha influenzato in maniera decisiva la politica e i progetti di legge del governo, fino a conquistarsi l’appellativo giornalistico di Queen’s gambit, a sottolineare gli sforzi compiuti per celare ai sudditi l’entità dell’impero finanziario monarchico.

Nel 2021, grazie a un’inchiesta del Guardian, abbiamo avuto un esempio tangibile di questa sua capacità d’ingerenza: durante il suo regno, Elisabetta II ha fatto un utilizzo piuttosto estensivo del cosiddetto Queen’s consent (Consenso della Regina), una procedura che consente alla sovrana di esaminare i disegni di legge che potrebbero interferire con i suoi interessi privati e, all’occorrenza, di bloccarli.

Stando a quanto ricostruito dal Guardian, Elisabetta ha sfruttato questa antica prerogativa per esercitare pressioni sul parlamento affinché alcune leggi venissero modificate a sua tutela. Ad esempio, nel 1970, la Regina si è avvalsa di questa consuetudine per ottenere delle modifiche al disegno di legge sulla trasparenza e, quindi, nascondere all’opinione pubblica i movimenti finanziari compiuti dalla Corona, il valore delle proprietà reali e le personalità coinvolte nel suo giro d’affari.

Questa predisposizione all’intromissione negli affari della democrazia rappresentativa e nella sovranità parlamentare, sempre secondo quanto appreso dalle indagini del quotidiano britannico, si è manifestata in diverse occasioni: le leggi “vetted” – controllate – dalla Regina o dal Principe Carlo negli ultimi settant’anni ammonterebbero circa un migliaio e, soprattutto, non riguarderebbero soltanto gli affari della Corona, ma anche tematiche pregnanti come sicurezza sociale, le pensioni e la politica alimentare.

Elisabetta è stata anche un’acerrima nemica dell’indipendentismo scozzese: non ha mai nascosto la propria contrarietà all’uscita di Edimburgo dal Regno, rompendo il silenzio – e la sua famosa “imparzialità”, più decantata che reale – per fare irruzione nel referendum del 2014 con delle dichiarazioni pubbliche che hanno plasmato le sorti del voto e agevolato la vittoria degli unionisti. Il suo vero talento politico era proprio questo: scegliere le parole giuste, le uniche possibili da impiegare per trasformare dei discorsi formalmente pacati in dichiarazioni di intenti capaci di toccare le corde giuste e influenzare il comportamento degli elettori. Ecco perché, al netto dell’enfasi sull’aspetto più marcatamente pop che una figura così ingombrante e riconoscibile porta inevitabilmente con sé, dobbiamo tenere a mente che quella della Regina non è stata soltanto una storia di costume e lustrini, ma una vicenda complessa intrisa di intrighi internazionali, ingerenze politiche e, ovviamente, cooptazione; la vicenda di una leader risoluta e tutt’altro che politicamente ingenua, che ha insegnato al mondo l’arte del soft power. Cucirle addosso i panni della nonnina candida, incorruttibile e innocua non fa onore alla sua memoria e non contribuisce, in alcun modo, a rafforzare la nostra capacità di analizzare criticamente almeno settant’anni di storia.