In queste ore si legge un po’ ovunque: non c’è niente di nuovo, non è una notizia, insomma circolare, guardiamo e passiamo oltre. E in effetti le immagini di Acca Larentia ‒ le centinaia, forse migliaia, di braccia tese in stile adunata fascista catturati durante la commemorazione dei tre militanti di estrema destra uccisi il 7 gennaio 1978 a Roma ‒ si ripetono ogni anno, e non solo nella capitale. Nel 2019 i giornalisti Federico Marconi e Paolo Marchetti, all’epoca all’Espresso, si erano infiltrati nel corteo per documentarlo, venendo minacciati e picchiati dai militanti neofascisti. E anche a Milano, quando viene ricordato l’omicidio di Sergio Ramelli, il 29 aprile, si assiste a scene simili. Così come succede a Predappio, a Dongo, a Salò e negli altri ritrovi “neri” italiani. Se certe scene rappresentano un indice del “ritorno del fascismo”, meglio fare direttamente un passo di lato: il fascismo non se n’è mai andato, è tutto un grande film già visto.
Dall’altra parte, è un grande film già visto anche l’insieme di non-risposte della destra più o meno istituzionale, racchiusa in una serie di mancate condanne e dichiarazioni ambigue. Su tutte, quelle del presidente del Senato Ignazio La Russa, intervistato da Repubblica. Prima parla della «totale estraneità di Fratelli d’Italia», il partito a cui appartiene e che ha fondato. Ma poi si guarda bene dal condannare il gesto del saluto romano, tenendosi sul vago e rinviando tutto alla Corte di Cassazione e all’eventualità o meno che sia corretto applicare la legge per l’apologia di fascismo su un fatto del genere: «Finora ci sono state sentenze contrastanti sul fatto che il saluto in occasione di celebrazioni di persone decedute sia reato oppure no. Per alcune sentenze della Cassazione non era reato, per altre sì». E ancora: «Una cosa è l’apologia di fascismo, una cosa è la ricostituzione del partito fascista, un’altra è la commemorazione di deceduti». Insomma, un nascondino: troppo difficile condannare?
La Russa non è nuovo a giravolte e dichiarazioni ambigue sul tema: lo scorso 25 aprile, tra le tante, durante la Festa della Liberazione, a domanda se si ritenesse un antifascista rispose che «dipende dal senso» del termine, prima di volare a Praga al monumento a Jan Palach, patriota cecoslovacco morto suicida, nel 1969, per protestare contro il regime filosovietico, icona della lotta “contro tutte le dittature” ma ben saldo nel gotha dell’estrema destra. Come ricorda sempre Repubblica, poi, due anni fa si era scoperto che esponesse in casa un busto di Mussolini, che in un secondo momento avrebbe attribuito alla sorella. «Era un regalo di mio padre, se mi avesse lasciato un busto di Mao Tse-tung, mi sarei tenuto con lo stesso affetto Mao Tse-tung», disse. Un’altra risposta vaga.
Se le adunate neofasciste, insomma, non rappresentano una novità, non lo sono neanche la difficoltà della destra a condannarle e l’allergia, in generale, che scatta quando si tratta di pronunciare la parola “antifascismo”. La stessa Giorgia Meloni non ha ancora preso posizione su Acca Larentia: gli unici ad averli condannati sono Antonio Tajani per Forza Italia («Siamo antifascisti», eureka!) e Maurizio Lupi di Noi Moderati. Per il resto, il leitmotiv è quello blando dei “cani sciolti”: i militanti sarebbero persone isolate, che non hanno niente a che vedere con il partito, come ripete anche Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia. Matteo Salvini (Lega) è in assoluto silenzio: la priorità in queste ore è aprire le porte al generale Vannacci in vista delle prossime elezioni europee, un gesto che, visti gli ideali espressi in Il mondo al contrario, è più indicativo di tante, eventuali diffide di sorta.
Ci sta, comunque, che se ne parli più del solito, perché la destra adesso è al governo e perché, come peraltro hanno ricordato in molti, opposizione in primis, qualche mese fa era stato identificato dalla Digos il giornalista che alla Scala di Milano urlò «viva l’Italia antifascista!» alla presenza di La Russa. Ma nonostante la Digos fosse ad Acca Larentia, nessuno dei militanti è stato identificato ‒ loro nicchiano, «ci conoscono già». In questo senso, gran parte della destra ha preso le distanze non tanto dal gesto, mai condannato appunto, ma da eventuali responsabilità nell’organizzazione e nella “tolleranza” da parte delle autorità della commemorazione. Lo scrive Tommaso Montesano su Libero, ma è un pensiero diffuso: «Accusano Meloni, ma quando governavano loro succedeva la stessa cosa».
Resta da capire com’è che storicamente e ciclicamente la destra faccia sempre tutta questa difficoltà a prendere le distanze dal fascismo. Ora: è una questione lunga e complessa, che ha radici diverse e profonde e non si può liquidare in poche righe. Per quanto riguarda quei partiti che non hanno in sé una tradizione fascista, come la Lega, vengono in mente calcoli politici: candidare Vannacci, che non a caso anche ieri ripeteva che «la gente è con me», e non prendere le distanze da Acca Larentia significa prima di tutto cercare dei voti nella pancia del paese. Per Fratelli d’Italia, invece, il discorso è diverso: oltre alla questione meramente elettorale, c’è da tenere conto che il partito discende dal Movimento Sociale Italiano, a cui appartenevano tra gli altri i militanti uccisi ad Acca Larentia; un passato che non passa, e da cui faticano a dissociarsi. Eppure Gianfranco Fini, che con La Russa ha condiviso un pezzo di strada e che negli anni Novanta era stato il demiurgo di Alleanza Nazionale, la prima reincarnazione dell’Msi precedente proprio a Fratelli d’Italia, a suo tempo disse che il fascismo era stato «un errore» e i suoi ora dovevano andare oltre. Parole che pesano oggi più di allora, e che evidentemente in pochi, lì, hanno ascoltato.