Parlano lingue diverse dalla loro lingua d’origine, alcuni di loro erano sportivi professionisti prima di fuggire da guerra, fame e povertà. Altri hanno ricostruito la propria vita, grazie allo sport, in un nuovo paese di accoglienza. La squadra olimpica dei rifugiati si presenterà – per la seconda volta nella storia delle Olimpiadi dopo Rio de Janeiro nel 2016 – ai giochi di Tokyo 2020. I 29 atleti, 11 donne e 18 uomini, sono stati scelti per rappresentare 80 milioni di persone in fuga nel mondo da guerre e persecuzioni. La delegazione sfilerà con la bandiera olimpica e la torcia dopo la Grecia – patria delle Olimpiadi, che tradizionalmente apre i Giochi – alla cerimonia di apertura prevista domani alle 13 (ora italiana).
L’acronimo della squadra olimpica è EOR (che sta per Equipe Olympique des réfugiés) e tutti gli atleti gareggiano grazie a una borsa di studio del CIO, da 11 Stati di origine e 13 stati ospitanti – ovvero i Paesi dove hanno ottenuto lo status di rifugiato. In tutte le competizioni dove parteciperanno gli atleti EOR, e alle loro premiazioni, sarà suonato l’inno delle Olimpiadi e innalzata la bandiera olimpica. Gli sport rappresentati dalla squadra dei rifugiati sono judo, taekwondo, karate, boxe, wrestling, ciclismo, nuoto, badminton, atletica, sollevamento pesi, tiro a segno, canottaggio.
Tra gli atleti in gara ci sarà la nuotatrice Yusra Mardini, ambasciatrice dell’Alto commissariato per i rifugiati, alla sua seconda partecipazione olimpica con la squadra rifugiati. Prima di fuggire dalla Siria, nel 2015, Mardini era già una nuotatrice professionista e partecipava già alle gare internazionali. L’escalation della guerra in Siria nel 2015 ha obbligato la famiglia Mardini a fuggire da Damasco aBerlino, attraversando illegalmente 7 Paesi prima di arrivare in Germania. La guerra in Siria, ancora in corso dopo più di 10 anni, è la più grande crisi umanitaria del XXI secolo e ha causato più di 5,5 milioni di profughi.
Non tutte le storie degli atleti rifugiati sono a lieto fine. Un’inchiesta di TIME ha svelato la storia del corridore Dominic Lokinyomo Lobalu, rifugiato dal Sud Sudan in Kenya, fuggito dalla squadra del CIO durante una gara in Svizzera nel 2019. Lobalu ha posto il problema delle “ridotte possibilità di costruire il proprio futuro a disposizione degli atleti rifugiati”, sottolineando la mancanza di soldi e futuro per chi gareggia. Ora Lobalu vive in Svizzera ma ha rinunciato a fare parte della squadra olimpica dei rifugiati. Prima di fuggire, il corridore si allenava a Nairobi, dove avrebbe dovuto completare la preparazione per le Olimpiadi – in un campus sportivo per rifugiati gestito dall’ex campionessa di mezzofondo e maratoneta Tegla Loroupe, chiamata a guidare la delegazione del CIO a Tokyo. Loroupe ha fondato nel 2003 il campo di allenamento per dare un’opportunità ai talenti della corsa, in situazioni particolarmente svantaggiate come i rifugiati.
Quelle di Tokyo saranno le Olimpiadi più atipiche della storia: per la prima volta senza pubblico e con grandi restrizioni anche per gli atleti partecipanti. La ripresa dei contagi sta mettendo a rischio lo svolgimento dell’evento sportivo più emozionante e atteso dagli atleti di tutto il mondo. La possibilità di annullamento anche in itinere non è stata esclusa da contagi in aumento – circa 70 rilevati a due giorni dall’inizio – e preoccupazioni per i test anti-doping meno stringenti a causa delle norme di contenimento del coronavirus.
Anche la squadra olimpica dei rifugiati ha subito ritardi e complicazioni dovute ai contagi: in un comunicato del CIO un membro dello staff della squadra in ritiro a Doha, è risultata positiva al covid il 12 luglio, “ma è stata immediatamente isolata e resterà in Qatar”.