La Turchia di Erdoğan sta cambiando per sempre? Pare di sì: una fase (molto contestata) finisce, e un’altra, forse più giusta, adesso comincia. E forse per l’attuale presidente è la fine. Chiaro, al di là di come andrà, non potrà comunque candidarsi alle prossime elezioni del 2028, perché ha esaurito i mandati. Ma non è questo il punto: l’idea è che, come dicono gli oppositori, «è finito il declino della democrazia» e il suo partito AKP – che ha riportato la religione, cioè l’Islam, al centro della vita dello stato dopo un lungo periodo di laicizzazione, è controverso, ha alleanze con l’estrema destra, derive autoritarie e di controllo dell’informazione – pare sia giunto al capolinea, indipendentemente da chi ne prenderà la guida.
O perlomeno così dicono i risultati delle elezioni amministrative che si sono tenute nelle principali città del Paese questo weekend, dov’è uscito sconfitto ovunque: dov’era sicuro di potersi prendere una rivincita, e dove invece non aveva mai perso. «Non abbiamo ottenuto i risultati che volevamo», ha ammesso lo stesso Erdoğan in diretta tv, senza nascondere la polvere sotto il tappeto. Il calo di popolarità, d’altronde, è evidente da anni. Il suo partito si è fermato al 35%, il risultato più basso che ha mai ottenuto. La colpa è principalmente della grave crisi economica che ha sfiancato il Paese, con picchi d’inflazione che hanno reso impossibile la vita ai turchi; il capo di Stato non è mai sembrato capace d’intervenire, ha fatto leva sulla politica estera (la questione di Gaza soprattutto, dov’è apertamente contro Israele) per far leva su quel sentimento di unione nel segno dell’islamismo su cui ha sempre spinto, ma non è stato abbastanza per supportare la gente comune nei problemi quotidiani.
I risultati delle amministrative, quindi. A sorridere è il principale partito di opposizione, il CHP, erede dopo mille travasi e mutamenti di quello di Atatürk da cui è nata la Turchia di oggi, con un’impostazione laica messa però sotto pressione dalle politiche islamiste di Erdoğan. Ecco, il CHP ha vinto in tutte le città chiave, tra cui Istanbul, Ankara e diverse località dell’Egeo; alle quattordici già guadagnate nella precedente tornata amministrative, ne ha aggiunte dodici. L’AKP invece è rimasto stabile solo in alcune zone dell’Anatolia centrale, perdendo comunque roccaforti anche lì; in più, a sudest il partito che appoggia la causa curda è ampiamente in crescita.
Da una parte, quindi, c’è un cambio di sensibilità da parte dell’opinione pubblica, più spostata a sinistra e su posizioni meno nazionaliste di quelle di Erdoğan. Ma la verità è che il presidente in carica è stato tradito anche dal suo elettorato storico: in un paio di città – ma la tendenza è lo stesso generale – ha perso voti in favore di partiti che sposano un islamismo ancor più radicale del suo, e che negli ultimi tempi lo hanno accusato di essere stato troppo morbido con le questioni religiose. Tradotto: se quella di una svolta a sinistra è un’immagine che ha bisogno di alcuni distinguo, la polarizzazione del dibattito è oggettiva, così com’è oggettivo che questa dinamica sta già tagliando fuori Erdoğan.
In vista delle elezioni del 2028, il capo di Stato non ha ancora indicato quello che giocoforza dovrà essere il suo erede, ma la dispersione di voti è comunque difficile da arginare. Il CHP, al contrario, sembra sul pezzo e in grado di far finire davvero un’epoca, forte di un rinnovamento di stampo più giovane e riformista che ha una guida nell’attuale presidente Özgür Özel. Per quanto comunque è molto probabile che non sarà lui a tenere le redini del partito d’ora in poi, ma l’attuale sindaco di Istanbul – confermato con più del 50% dei voti – Ekrem Imamoğlu. «Istanbul rappresenta un faro di speranza, una testimonianza della resilienza della democrazia di fronte al crescente autoritarismo», ha detto nei festeggiamenti, aprendo alla campagna elettorale contro Erdoğan.
Istanbul è la capitale economica del Paese, nonché la più europea delle città turche – un po’ come se in Italia parlassimo di Milano. Un successo lì non è per forza indicativo del sentimento del Paese reale, ma negli anni Imamoğlu ha saputo costruirsi una popolarità in tutta la nazione, e soprattutto è una figura trasversale in grado di parlare con strati diversi della società. Anche perché per tanti osservatori ha già la stoffa da presidente: 52enne, musulmano praticante ma convinto della separazione dei poteri tra Stato e religione (una chimera, finora), come il presidente uscente è un animale politico che, scrive Repubblica, «ama piacere», è in contrasto con la magistratura (ha un processo in corso che potrebbe affossarlo) ed è incline ai colpi di teatro e alla spettacolarizzazione del dibattito. Che sia la nemesi, per certi versi, di Erdoğan il politico adatto a mettere fine al suo autoritarismo?