La notizia da Mosca più gettonata dai media italiani è che la Russia comprerebbe il debito italiano. La notizia da Roma più gettonata dai media russi sono i tifosi del Cska di Mosca franati insieme alla scala mobile nella metropolitana della capitale, e infuriati perché Matteo Salvini e Virginia Raggi hanno dato la colpa dell’incidente alla loro ubriachezza molesta. Riguardo alla prima, in realtà si tratta non di un annuncio, ma di una smentita: interrogato dai giornalisti italiani alla conferenza stampa con il premier Conte, Putin ha detto di non avere intenzione di farlo, né di averne discusso con il governo italiano, ma di non vedere in astratto “nessuna controindicazione politica” all’eventuale acquisto dei titoli italiani, perché “i fondamentali dell’economia italiana sono buoni”.
Il presidente russo ovviamente non ha colto il sottinteso della domanda, perché non ha mai sentito parlare dei piani B di Paolo Savona, e non ha capito che in realtà gli si stava chiedendo se avesse acquistato i Btp nel momento in cui diventavano carta straccia. Riguardo alla seconda, oltre alla comprensibile offesa – “meno male che Salvini ha fama di essere un politico filorusso”, ironizza l’agenzia di Stato Ria Novosti nel suo commento editoriale – per il luogo comune dei russi ubriachi che non sanno comportarsi da persone civili in una metropolitana, la propaganda di Mosca coglie l’occasione per ricordare ai russi che l’Europa non è poi così bella come credono, e che comunque in Occidente i russi nessuno li vuole, e che Mosca è molto più sicura, ordinata e pulita di Parigi, Barcellona o Roma, dove l’ambulanza impiega 40 minuti ad arrivare in centro.
Nello stesso giorno è arrivata invece una notizia vera, svelata dallo stesso Putin con Conte presente, impassibile, al suo fianco: la Russia punterà missili nucleari sui Paesi europei che installeranno eventuali missili nucleari americani, dopo che Donald Trump ha annunciato di voler rompere il trattato sul bando dei missili a corto e medio raggio (500-5000 km) che proibisce a Mosca e Washington di possedere queste armi. In altre parole, si torna agli “euromissili”, agli anni Ottanta, quando nell’ambito del braccio di ferro tra sovietici e americani gli SS-20 erano puntati sull’Europa, per distruggerla in caso di guerra atomica ancora prima di colpire l’America, e i Pershing dal territorio europeo miravano su Mosca e Leningrado per impedire al Cremlino di farlo. Era il mondo che si reggeva sulla “mutua distruzione assicurata”, attanagliato dalla paura dell’apocalisse atomica molto più di quanto lo è il mondo di oggi dalla minaccia del terrorismo jihadista e del riscaldamento globale, e Sting cantava in Russians di sperare che anche i russi amassero i loro figli, perché era l’unica speranza rimasta di non finire in un mucchietto di cenere.
Per riassumere in breve vicende ormai lontane, nel 1976 i generali sovietici cominciano a installare lungo i confini occidentali i missili SS-20 Pioner puntati soprattutto sulle città e le infrastrutture europee, per ridurre il Vecchio Continente in polvere in caso di guerra nucleare e impedire agli americani di usare l’Europa come teatro di guerra. Il calcolo militare era quello di annientare il nemico, il calcolo diplomatico di “spaventare” gli europei e spingerli ad allontanarsi da Washington verso i russi, ma l’effetto ottenuto è esattamente opposto. Il cancelliere tedesco Schmidt è terrorizzato, (la Germania è il bersaglio principale dei russi), a Londra governa Margaret Thatcher, alleata fedele di Washington e fervente anticomunista, ma anche Francois Mitterand, considerato a Mosca quasi un alleato, si schiera con la Nato, e perfino Enrico Berlinguer schiera il Pci sotto l’”ombrello nucleare” americano, perché è difficile rimanere alleati di qualcuno che minaccia di distruggerti. Nel 1979 in Europa arrivano i Pershing (in Italia vengono installati nella base di Comiso, nonostante le proteste), che rendono inutili i piani strategici sovietici: in caso di guerra impiegano 6 minuti per colpire a colpire Mosca, senza dare nemmeno a Brezhnev l’opportunità di rifugiarsi nel bunker antiatomico. A questo punto la posta in gioco non è più vincere, ma distruggere meglio l’avversario, e i russi si mettono a costruire missili a centinaia, in uno sforzo che mette in ginocchio la loro economia già vacillante.
L’assurda escalation finisce solo con Mikhail Gorbaciov, che nel 1987 insieme a Ronald Reagan firma il trattato che mette al bando in quanto tali tutti i missili di corto e medio raggio. L’incubo è finito, il braccio di ferro tra russi e americani diventa una faccenda di due superpotenze, e l’Europa smette di essere un teatro di guerra destinato a essere sacrificato per primo. La foto di Reagan e Gorbaciov che firmano il trattato entra subito nei libri di storia. E forse lì rimarrà, perché Donald Trump ha annunciato di voler disfarsi del trattato firmato trent’anni fa, con la scusa che i russi lo stanno violando, installando nell’enclave baltica di Kaliningrad missili – dotabili di testata nucleare – in grado di colpire la Polonia e, con un certo sforzo, anche Berlino.
La logica è un po’ contraddittoria – se si rompe il trattato, i russi potranno installare tutti i missili che vogliono perché non ci sarà più nulla da violare – ma Putin coglie la palla al balzo, anche perché è convinto a sua volta che gli americani abbiano violato i patti da tempo, con i droni e con i razzi – dotabili potenzialmente di testata nucleare – della difesa antimissilistica in Europa e in Corea del Sud. L’apocalisse nucleare apparentemente non spaventa il Cremlino, e Putin dichiara allegramente che in caso di attacco atomico non avrà esitazione a ordinare il contrattacco: “noi russi, in quanto martiri, andremo tutti in paradiso, mentre il nemico creperà e basta”. D’altra parte, il presidente russo aveva già in passato dimostrato di non avere il tabù sull’uso dell’atomica dei suoi predecessori: aveva messo in allerta i missili russi all’epoca dell’annessione della Crimea, e non teme il rischio che il mondo intero possa cessare di esistere perché “un mondo senza la Russia non ha senso”, ha dichiarato in uno dei film agiografici che gli dedica la tv russa.
Sui giornali russi sono già intervenuti “esperti” che sostengono che in realtà la guerra nucleare si possa vincere, si tratta solo di lanciare bombe ancora più pesanti sull’America, che tanto gli occidentali si mettono a trattare solo dopo che li si spaventa per bene, e che Mosca è protetta da uno scudo antimissile che fermerà i razzi lanciati dagli americani (facendoli però esplodere sopra la capitale russa, con tutti gli effetti che questo comporta). Il governo tedesco è il primo a lanciare l’allarme sulla fine della sicurezza europea, e Londra si schiera subito con Washington, in una curiosa ripetizione dello scenario degli anni Settanta (resta da vedere se Salvini, posto di fronte alla scelta tra Trump e Putin, vorrà assumersi il ruolo di Berlinguer). L’architettura della sicurezza internazionale, che si reggeva su numerosi e elaborati accordi bilaterali e multilaterali, torna all’improvviso ai tempi della crisi di Cuba.
Il mondo trema, ma alla Casa Bianca abita un uomo d’affari, e anche l’inquilino del Cremlino è molto più pragmatico di Brezhnev: infatti, il giorno dopo l’annuncio di Trump di voler rompere il trattato sui missili è stato annunciato un suo vertice con il collega russo a Parigi l’11 novembre, per discutere il disarmo (o il riarmo). Il problema del trattato infatti è che vincola solo russi e americani, mentre gli stessi missili da 500-5000 km di gittata sono l’arma principale nell’arsenale degli Stati del cosiddetto “asse del male”, come Corea del Nord e Iran, ma soprattutto della Cina. Il mondo è cambiato, la partita strategica non si gioca più a due, e Trump infatti ricorre al suo solito trucco di spaventare la suocera perché la nuora intenda: in realtà, fa sapere, sarebbe disposto a rinegoziare il trattato estendendolo a Pechino. E toccherebbe probabilmente a Putin convincere il comprensibilmente adirato Xi Jinping, rinunciando nel contempo al perno principale della sua politica: che la Russia è l’unica controparte globale dell’Occidente, e che proprio il fatto di essere il suo nemico principale conferma la grandezza del suo impero.
Se il bluff di Trump non funziona, l’alternativa sarà un mondo dove tutti tornano liberi di armarsi allegramente. In fondo conviene a tutti, iraniani, cinesi, americani, nordcoreani, russi e indiani. L’unica a perdere sarebbe l’Europa, che non ha intenzione di armarsi, e quindi tornerebbe nel suo ruolo di bersaglio. I russi – nonostante il rischio di uno sforzo bellico che rischierebbe di sfinire l’economia che già paga il prezzo delle sanzioni e della guerra in Siria (negli anni Ottanta era l’Afghanistan) – non perderebbero l’occasione di ripuntare i missili su Germania, Francia, Italia e Regno Unito, e il Pentagono non perderebbe l’occasione di piazzargli dei contromissili che probabilmente Polonia e Paesi Baltici sarebbero lieti di ospitare per tutelarsi dall’invadente vicino orientale. A quel punto, per sentirsi definitivamente tornati nel 1984, non resterà che tornare alla lira, con Sting in sottofondo.