1. Giggino Di Maio
Dura la vita del capo politico (ahem..) del partito (ahem..) di maggioranza relativa del Paese. Vinci le elezioni, pensi di essere additato da tutti come l’irricevibile puzzone e invece no: prima si fa avanti lo zelante Martina che, a nome della sezione riunita del Pd di Calcinate, si offre di esplorare non si capisce bene che cosa (Martina sarà anche un bravo ragazzo ma è la Xylella del Partito democratico) e poi arriva lui: Matteo Salvini.
I due si guardano da lontano, si studiano, si annusano, e Luigino è già nel sacco. L’unica concessione che Matteo si sente di fare sono le famose 3 settimane di lavoro che per la prima volta nella sua vita sacrifica con gioia. Poi passa all’attacco: ci prova con il professor Sapelli – uno così innamorato degli elettori 5Stelle da definirli “il popolo degli abissi”. Va male, l’onorevole Gigi non sarà un fulmine di guerra ma questa non se la beve nemmeno lui. Bisogna agire d’arguzia. Sfiancati dall’estenuante lavoro sul Contratto di Governo e dai ripetuti plebisciti online e con Palazzo Chigi ormai a portata di mano, i 5Stelle si rilassano, Giggino mette via per un attimo quell’espressione tipica di chi sta per servirti il miglior Sbagliato della tua vita, e puff, non c’è più nulla. Tutto svanito.
Il trappolone si palesa sotto le forme di un secondo professore, questa volta si tratta di Paolo Savona (per i dettagli si rimanda al punto 2). Ma per Giggetto Matteo ha in faretra un secondo trick: l’impingement. Magistrale: ma chi l’aveva visto – e scritto – mai l’impingement? Dopo il niet – tardivo se ce n’è uno – del presidente della Repubblica, Salvini attacca a testa bassa: si sfoga con l’alleato Gigio e lo spedisce in piazza la sera stessa insieme alla sua naturale spalla comica – lui, Dibba il tupamaro – a montare uno dei numeri più ridicoli della Storia della Repubblica. I due si fomentano, si spalleggiano, si aizzano vicendevolmente fino al colpo di scena finale: Mattarella è colpevole di Alto Tradimento e Attentato alla Costituzione. È fatta, pare sia fatta, con Matteo abbiamo i numeri! E invece no. Sarà proprio un inconsolabile Giggetto a dover ammettere che l’impingement per questa volta non si farà. E come mai? “Perché Salvini non vuole” (risposta testuale ma pronunciata con un filo di voce dovuto alla stretta titanica sulle palle).
2. La Lega attuale
Qui il Segretario veste i panni del lungimirante. “Niente uovo oggi se c’è la gallina domani, mica lo freghi il Salvini, pistola!”. Quindi ecco il programma: si fa finta di trattare con quello stoccafisso di Giggetto, si promettono frontiere granitiche, espulsioni a catapulta, tasse al 20 per cento e un ininterrotto flow salariale da ricevere comodamente a rate sul divano, e quando quel povero cristo di Mattarella, dopo aver dovuto mandare giù un candidato Premier sconosciuto, falsificatore di curricula e soprattutto non eletto, si permette di eccepire che il Savona teorico di “Piano B.” e “Nuova Lira” non è il caso di nominarlo, Matteo manda immediatamente al bar il Governo gialloverde e sei-sette Ministeri per un’impuntatura di principio, quella, appunto, su un 82enne conosciuto 10 giorni prima.
Ma chi ci potrebbe mai credere, direte voi. I suoi elettori. Loro, e quelli dell’Onorevole Gigi ovviamente, i quali, come è risaputo, credono a qualunque cosa non scientificamente dimostrabile, essendo questo – la dimostrazione scientifica – l’unico caso in grado di insospettirli. E la classe dirigente della Lega che dice? Quella attuale, nulla. Davanti a un Presidente della Repubblica che suggerisce il nome del numero due del tuo partito, Giancarlo Giorgetti, all’Economia, e il tuo Segretario fa saltare il banco schiumando a ogni domanda “chiedete a Mattarella”, l’intera classe dirigente leghista non ha nulla da eccepire. Per trovare un minimo di buon senso bisogna andare dall’ex ministro Pagliarini, che da twitter commentava laconicamente con un rotondo “rob de matt”.
Se e’ vero che Mattarella ha proposto Giorgetti come ministro dell’economia giuro che non capisco perché Salvini non ha accettato e con urla di gioia. Ovvio che Giorgetti è meglio di Savona. Chi mi sa spiegare perché Salvini non ha accettato Giorgetti? Mi sembra “robb de matt” !
— Giancarlo Pagliarini (@vecchiopaglia) 28 maggio 2018
3. La Lega storica
Non ne rimane più traccia. Via il qualificativo “Nord” dalla scheda; i terribili felponi da ganassa abbracciano ogni giorno sempre nuove latitudini mediterranee; “Roma ladrona” trasfigurata in “Roma tettona” (per i formidabili tetti della Città Eterna, ultima irrefrenabile passione di Matteo che li marca a fuoco a colpi di mitragliate di selfie col faccione in primo piano); infine – il colpo di grazia – l’alleanza con quanto di più distante dall’idea originale leghista si sia mai visto in politica.
Un partito che più centralista, assistenzialista e meridionalista non si può, un aborto ideologico di assoluta vacuità che solo il mantra belluino dell’onestà con la O maiuscola e la bava alla bocca riesce a collegare allo Stato nascente delle vicende leghiste, quelle che risalgono alle orribili piazze etiche di fine Prima Repubblica. Difficile raccontare oggi a chi non c’era che un tempo la Lega era probabilmente il partito con l’ideologia politica più nitida del lotto. Difficile spiegare che Gianfranco Miglio – il cosiddetto “ideologo” della Lega Nord – fu uno dei massimi scienziati politici italiani, rappresentante di una teoria liberale nobilissima che discende dal suo grande maestro Alessandro Passerin d’Entreves e lo attraversa fino all’allievo Lorenzo Ornaghi e poi ancora oltre: una teoria che ha cristallizzato per decenni la facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano, non esattamente il fulcro concettuale della Cassa del Mezzogiorno. Ma niente, Matteone decide di spanciare anche nella piscina dottrinale – ma perché no – svuotandola a colpi di teoretici “via i negher”.
4. Il centrodestra
Qui incarnato in Renato Brunetta, l’unico animale politico ad essere rimasto impalato al 4 marzo nella ferma convinzione che “l’alleanza di centrodestra non si può sfaldare perché governiamo insieme nelle più importanti regioni del gnegnegne”. Un Renatino – che peraltro da che si abbia memoria non ha mai imbroccato uno straccio di previsione, percorso netto invidiabile – che è ancora convinto di essere nella situazione pre-elettorale di 6 mesi fa quando, come ricordava ieri Mattia Feltri nel suo Buongiorno sulla Stampa, era Salvini a chiedere patti antiribaltone dal notaio per impedire a Berlusconi di mollare il centrodestra in favore di Renzi.
L’inestirpabile ottimismo dell’uomo, unito a una prevedibile allergia al notariato, ha fatto il resto e così Matteo è riuscito con un guizzo a slacciarsi dallo staticissimo polo berlusconiano per andare diritto tra le braccia di compare Giggino. Ora che il centrodestra è ridotto a un gatto di marmo, tipo Partito Repubblicano durante la scalata di Trump alle primarie, il dominus è diventato lui, Matteone nostro. Che cosa farà? In che modo deciderà di disporre dell’egemonia d’area finalmente raggiunta dopo anni di falso tifo rossonero? Non è dato sapersi ma non ci si attendono molte sorprese: solo un Berlusconi da tempi di predellino e bandana bianca potrebbe pensare a un miracolo elettorale di questa magnitudine (oppure potrebbe accogliere i consigli che gli stanno arrivando dagli amici: fuori Lega e 5Stelle dalle tv Mediaset fino a nuovo voto. In effetti, con tutto quel che hai combinato in vita, ma che ti frega della par condicio?).
5. Il toro
Nella presente allegoria salviniana qui a rappresentare plasticamente una potente summa dei quattro capitoli precedenti e insieme la fiera indomita che solo l’impavido diestro è in grado di matare nell’arena (il sistema politico? La Repubblica? L’Eurasia?).
È anche vero che il toro non si prende per le palle ma per contrapposta parte anatomica: ma Matteone è un fuoriclasse vero che gioca a tuttocampo e, che ci crediate o meno, è imbattibile anche lì.