Quando si parla di Balcani, e soprattutto quando si parla di disordini nei Balcani, la tentazione collettiva è sempre quella di ritrarre la situazione con una serie di caricature, per poi poter cantare tutti in coro, molto compiaciuti, “Kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov… Eeeeeeh!… Boom, boom, boom, boom, boom…”. Ma, anche reprimendo l’inclinazione per i ritornelli bregoviciani, quando si parla di Balcani – come nel caso degli scontri di piazza di questi ultimi giorni in Serbia, in cui i manifestanti protestano contro le nuove misure restrittive per il contenimento del coronavirus (o, meglio: in cui i manifestanti protestano contro il governo, con il pretesto delle nuove misure restrittive da esso decise per il contenimento del coronavirus) – ecco, quando si parla di Balcani, quasi sempre, in effetti, it’s complicated.
Le proteste in Serbia avvengono a poche settimane dalle elezioni politiche del 21 giugno, le prime elezioni politiche post-Coronavirus in Europa – che poi tanto “post” non si sono rivelate, visto che i contagi nel Paese balcanico hanno poi iniziato di nuovo a crescere e proprio qui risiede una parte del problema. Solo una parte, perché il coronavirus un po’ c’entra, ma c’entra molto poco. C’entra invece soprattutto la politica. Proviamo quindi a tornare a indietro di qualche giorno.
Il 21 giugno ha partecipato alle elezioni meno della metà degli aventi diritto, anche perché molti dei partiti di opposizione hanno deciso di boicottare le urne considerandole espressione di un regime ormai poco democratico. La coalizione guidata dal Partito Progressista Serbo, il cui leader è il capo dello Stato Aleksandar Vučić, ha ottenuto più del 60 percento dei voti. Il secondo arrivato, cioè il Partito Socialista Serbo alleato con Serbia unita, ha raggiunto a malapena il 10 percento e solo tre gruppi sono entrati in Parlamento, se si escludono i vari seggi “obbligatori” destinati alle minoranze etnico-linguistico-religiose. Risultato: il partito di governo può ora contare su 188 dei 250 seggi del Parlamento di Belgrado.
È una buona cosa un’affluenza così bassa in una democrazia non molto matura? No. Ed è una buona cosa che i partiti di opposizione decidano di boicottare le elezioni? No, per niente, quale che ne sia il motivo. Ed è una buona cosa che un partito, che oltretutto già governa da molti anni, ottenga il 60 per conto dei voti e il 75 per cento dei seggi? No, è una pessima cosa. Ed è vero che il governo ha allentato con troppa faciloneria le precedenti restrizioni per contenere il coronavirus nel tentativo di garantire l’affluenza più alta possibile a questa specie di plebiscito elettorale per poi reintrodurle quando ormai il virus è tornato a galoppare in tutto il Paese dalla Voivodina al Sangiaccato? Probabilmente sì. E che ha cucinato i dati sul contagio a suo vantaggio? Chissà. E quindi le proteste hanno a che fare anche con questo? Eccome, ma soltanto come “goccia che ha fatto traboccare”.
Ma è vero che almeno alcuni dei manifestanti hanno approfittato dei disordini per dedicarsi a una generica guerriglia urbana e alla creazione del caos puro? Pare proprio di sì. E i poliziotti antisommossa hanno pestato come dei fabbri e spesso del tutto gratuitamente i manifestanti come se il nome George Floyd e tutto quello che ne è conseguito non avesse mai varcato le soglie dei loro padiglioni auricolari? Oh yes. Le proteste hanno una forte componente civica, spontanea, antiautoritaria, trasversale, apartitica? Sì. Ma quando il presidente Vučić ha affermato che i disordini sono sobillati da elementi delle destra estrema, da terrapiattisti e altri consimili picchiatelli, da infiltrati da altri Paesi e da criminali ha detto una cosa del tutto fuori dal mondo? Probabilmente no. Ma c’è chi pensa, con un doppio carpiato, che, sì, in effetti la guerriglia urbana è stata appaltata a estremisti di destra che scandiscono slogan contro il Kosovo, ma con il beneplacito del governo che così può screditare le manifestazioni altrimenti pacifiche? Ma bien sûr!
In un modo o nell’altro il Kosovo c’entra, perché il Kosovo c’entra sempre, da più di vent’anni, quando si parla della Serbia. Peraltro, lo stesso presidente Vučić attribuisce l’intervento nei disordini delle già citate “influenze straniere” proprio a un tentativo di indebolire la Serbia al tavolo delle trattative con il Kosovo. Oltretutto, le trattative tra Belgrado e Pristina, che sono perennemente in corso, avevano visto da ultimo il tentativo da parte dell’Amministrazione Trump di sottrarre il ruolo di mediazione all’Unione Europea (del tutto inconcludente ma perlomeno saggiamente cauta), attraverso quella cowboy diplomacy, altresì nota come Rambo diplomacy, tanto cara al Tremendous in Chief che comanda gli Stati Uniti. Ma questo tentativo ha subito un “rallentamento” quando, il 24 giugno scorso, cioè giusto tre giorni dopo le elezioni a Belgrado, il presidente kosovaro Hashim Thaçi, cioè uno dei due interlocutori privilegiati della Casa Bianca (l’altro è proprio il presidente serbo Vučić), è stato incriminato dal Tribunale speciale dell’Aia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
E quindi, Serbia, Kosovo, cowboy, crimini di guerra, insomma, vai con il “Kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov… Eeeeeeh!… Boom, boom, boom, boom, boom…”? No, tratteniamoci. Ma, in effetti, it’s complicated, anche questa volta.
La complicazione ha a che fare con che quello che è la Serbia oggi. La Serbia è, come e più di tutti gli altri Paesi dell’area (e non solo), tante cose tutte insieme, spesso in contraddizione tra loro. Innanzitutto la Serbia è un Paese che si è trovato sulla gobba per molto tempo il ruolo dell’eterno cattivo dei Balcani – il riferimento è al suo ruolo prima della guerra che ha disfatto la ex Jugoslavia, e durante quella guerra e dopo quella guerra, e poi al suo ruolo prima, durante e dopo l’altra guerra che ha portato all’intervento militare occidentale (anche italiano) e all’indipendenza del Kosovo, un’indipendenza così controversa che vari Paesi dell’Unione Europea non l’hanno mai riconosciuta.
Quest’indicazione ultramanichea dei serbi come i cattivi è anche ultrasemplicistica, e quindi ovviamente sbagliata. Ma, per farla molto (forse troppo) breve e rischiando così un’altra ultrasemplificazione, si può ricordare come un certo nazionalismo serbo abbia paradossalmente contribuito a questa nomea dei serbi come “cattivi più cattivi di tutti gli altri”, anche al di là degli orrori commessi proprio da quel certo nazionalismo serbo. Infatti, il cuore propagandistico del nazionalismo estremista serbo pulsa ancora intorno a quel numero 1389 che si può leggere ovunque sui muri di Belgrado così come nelle curve degli stadi e che allude alla battaglia della Piana dei Merli in cui, il 28 giugno 1389, l’armata guidata dal principe serbo Lazzaro fu sconfitta dalle forze ottomane guidate dal sultano Murad I. Ecco, il vittimismo che nasce dal volgere una sconfitta nella propria bandiera fa bene il paio con un certo vezzo nel volersi a tutti i costi mostrare, giusto da quei 631 anni, dalla parte del torto. Ecco, Alexander Vučić che pure viene proprio da quel mondo, e dalla militanza (con un ruolo di primissimo piano) nel Partito Radicale Serbo di Vojislav Šešelj, poi condannato a dieci anni di carcere per crimini contro l’umanità dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha invece molto contribuito a porre la Serbia su altri binari che la conducono, almeno apparentemente, verso Bruxelles e comunque lontana dallo stereotipo del Paese cattivo e colpevole.
Due soli elementi bastano a illustrare il restyling dell’immagine della Serbia apparecchiato in pochi anni, davanti agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, da Vučić, che per farlo si è appropriato di buona parte dell’elettorato e del sistema di potere che erano originariamente in mano ai nazionalisti a oltranza.
Il primo elemento: un atteggiamento abbastanza conciliante con il Kosovo, non solo per gli standard dell’ultranazionalismo da cui proviene ma anche per gli standard dell’opinione pubblica serba in genere, un atteggiamento corroborato dalla prima, storica visita a Tirana da parte di un premier serbo (sempre lui, Vučić che prima di diventare presidente, nel 2017, è stato primo ministro per tre anni), una visita cioè nella capitale da sempre sospettata, proprio da parte dei fautori della Grande Serbia dalla cui file Vučić proviene, di puntare a una Grande Albania – “grande” e quindi irrimediabilmente nemica, via Kosovo e non solo, di qualunque Serbia grande o piccola che fosse.
Il secondo elemento: nel 2017 il partito di Vučić ha espresso come premier per la Serbia Ana Brnabić, che è donna ed è dichiaratamente omosessuale. L’unico precedente in Europa, e nel mondo, di una premier lesbica è quello di Jóhanna Sigurðardóttir, a capo del governo islandese. Ma, anche se gli attivisti del mondo LGBTQ+ serbo sostengono che la premiership di Ana Brnabić non abbia cambiato di un acca l’environment piuttosto complicato in cui si trovano a vivere, la sola presenza “silente” di una omosessuale a capo del governo ha una portata enorme, proprio perché la Serbia non è esattamente libertaria quanto l’Islanda per quanto riguarda certe questioni.
Insomma, in un’area del mondo in cui tutto è sempre così maledettamente complicated, un’area del mondo in cui gli echi della guerra non si sono ancora spenti, tanto che perfino nella Croazia ormai approdata da anni sulle spiagge di Bruxelles, giusto durante la campagna elettorale per le elezioni politiche dello scorso 5 luglio, sono apparsi dei delicati graffiti con la sagoma d’un albero da cui pendevano degli strange fruits appesi a un cappio come probabile esito di un linciaggio e la scritta in inglese “Serbian Family Tree”, in un’area geopolitica e geoeconomica che fa da ponte tra Ovest ed Est e in cui tutti vogliono infilare il loro forchettone – la Cina che stucca ogni crepa geopolitica che vede con blocchetti di yuan, Putin che vanta la sua fratellanza ortodossa con la Serbia, la Turchia che accorre nel ruolo dello zio ricco d’Anatolia ovunque ci sia un minareto (e ce ne sono di minareti nei Balcani, e anche di minoranze turcofone), gli inviati di Trump che cercano di aggirare le cautele europee, i cauti europei che vogliono allargare la loro area di influenza liberale verso Mosca e verso Ankara ma poi combinano spesso enormi pasticci, gli investitori del Golfo che accorrono nel ruolo di zii ricchissimi d’Arabia anche laddove non ci sono minareti – ecco, in quest’area del mondo maledettamente complicated i politici come Aleksandar Vučić sono stati e sono i beniamini di molti.
E senz’altro sono stati i beniamini di una Unione Europea fedele a quella che l’analista Srdja Pavlović ha definito “stabilitocracy”, ovvero la tendenza dei governi europei a guardare di buon occhio quei leader balcanici di Paesi esterni all’Ue che, pur orbanizzando, erdoganizzando o putinizzando, mostrino allo stesso tempo un atteggiamento pro-europeo e garantiscano sia continuità politica sia buonsenso sui tavoli internazionali. Realpolitik, insomma. Perché, se è senz’altro vero che nelle strade della moderna, vitalissima, stupenda ed effervescente Belgrado manifestano contro Vučić molti cittadini che di leader orbanizzanti, erdoganizzanti e putinizzanti non ne vogliono giustamente sapere né poco né punto, probabilmente nelle strade di Belgrado ci sono anche molti che puntano a più nazionalismo, che sperano in un liberi tutti nel “dagli all’albanese” (o al bosniaco, o al croato), che auspicano la rottura di ogni rapporto con la leadership kosovara perché il Kosovo non esiste e 1389! e tutta quella tiritera sanguinaria lì, che sognano un abbraccio passatista con le più conservatrici correnti panslaviste, che non vedono l’ora di poter riprendere a picchiare selvaggiamente chi sfila nel Gay Pride e che ora è protetto (come foglia di fico? Forse, ma tant’è) da quella stessa polizia che in questi giorni randella i manifestanti.
E questo succede solo in Serbia, perché i serbi sono i più cattivi? No, succede, con varianti e variabili ogni volta diverse, in tutti i Paesi vicini. E quindi allora è vero che è tutta una questione di “Kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov, kalašnikov… Eeeeeeh!… Boom, boom, boom, boom, boom…”? No. Ma è vero che il coronavirus e le misure adottate dal governo e poi tolte e poi rimesse, nelle proteste in Serbia, non c’entra niente, o quasi. Ed è vero che it’s complicated. Molto complicated.