Il 2019 era stato un anno di grandi sommovimenti sociali – come testimonia il fatto che, alla fine dell’anno, il singolo evento a cui era stata data più copertura giornalistica nei 365 giorni precedenti erano state le proteste di Hong Kong. Ma non c’era stato solo Hong Kong: il Libano era in rivolta, in Sudan c’era stata una rivoluzione, in Bolivia un colpo di stato, in Siria sembrava sul punto di arrivare l’offensiva finale delle forze di Assad contro gli ultimi ribelli nella provincia di Idlib e c’erano grandi proteste anche in Iraq e in Cile. A dicembre 2019, quindi, tutti si aspettavano un 2020 ancora più di fuoco dal punto di vista delle proteste, delle sommosse e delle rivoluzioni.
E invece poi è arrivato il virus, che imponendo regole stringenti sui contatti umani ha avuto come primo effetto quello di svuotare le piazze e fermare le zone di conflitto. Il 2020, almeno i suoi primi mesi, è stato stranamente tranquillo dal punto di vista delle armi. Tutta l’attenzione era concentrata sugli sviluppi del focolaio di Wuhan, diventato poi un’epidemia e infine una pandemia globale.
A un certo punto, però, per quanto l’attenzione mediatica sia rimasta concentrata sul tema Covid, questo silenzio si è interrotto: nella seconda parte dell’anno, le parti in causa nei punti “caldi” del pianeta hanno lentamente cominciato a ingranare per riprendere da dove avevano lasciato. Stavolta però nel silenzio generale, o quasi. Tutti eravamo preoccupati della conta dei morti e dei nuovi casi, oppure di capire cosa si può e non si può fare nelle vare zone colorate del Paese, e il fatto che altrove ci fossero guerre o scontri non è entrato nei nostri radar. Ora che siamo alla fine dell’anno, ecco un breve riassunto di tutte le guerre, le proteste e le rivoluzioni che ci siamo persi nel 2020.
Lo scorso agosto in Bielorussia ci sono state elezioni molto controverse, che hanno visto la vittoria del presidente uscente Lukashenko (al potere dal 1991) tra accuse di brogli da parte dell’opposizione. Da allora la popolazione bielorussa ha riempito le piazze per chiedere le dimissioni del presidente, ma il governo ha risposto con arresti di massa, violenze poliziesche e buffi video in cui Lukashenko va in giro vestito da guerra con un Kalashnikov in mano, come a segnalare di essere disposto a tutto pur di rimanere al potere.
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BLACK LIVES MATTER
La morte di George Floyd, un uomo afroamericano assassinato dalla polizia nel maggio 2020 mentre veniva arrestato per aver pagato con una banconota da 20 dollari contraffatta, ha scatenato delle grandi proteste di piazza negli Stati Uniti – paragonabili al Sessantotto, al movimento per i diritti civili, alle proteste contro la guerra in Vietnam o al movimento Occupy. È stata una dimostrazione del fatto che la questione razziale e la discriminazione nei confronti dei neri è tutt’altro che un problema del passato ma anche un riflesso delle divisioni profonde all’interno della società americana, rese ancora più intense da quattro anni di presidenza Trump.
IL MONDO MUSULMANO CONTRO LA FRANCIA
Tra ottobre e novembre, i musulmani di tutto il mondo – dal Libano alla Turchia, dal Bangladesh alla Malesia – sono scesi in piazza per protestare contro la Francia e in particolare contro il governo di Macron e il suo atteggiamento verso l’islam. Tutto è cominciato con la morte violenta dell’insegnante di storia e geografia Samuel Paty, ucciso da un rifugiato ceceno di 18 anni per aver mostrato in classe alcune vignette di Charlie Hebdo su Maometto. L’omicidio ha riacceso tensioni sociali mai sopite nel Paese, il governo ha reagito con un giro di vite contro moschee e organizzazioni umanitarie islamiche considerate troppo radicali, Macron ha definito l’islam “una religione in crisi” e ha proposto una legge contro il “separatismo”. Il mondo musulmano, vistosi preso di mira, ha reagito con indignazione, manifestazioni e caricature del presidente francese date alle fiamme.
Mentre il mondo era concentrato sulla lotta contro la pandemia, uno dei conflitti congelati di più lunga durata si è improvvisamente scongelato quando l’Azerbaijan ha di fatto dichiarato guerra all’Armenia per riconquistare il territorio conteso del Nagorno-Karabakh – un territorio popolato da armeni, considerato parte dell’Azerbaijan dal diritto internazionale ma di fatto, almeno fino a quest’anno, amministrato dalla repubblica di Artsakh, uno stato fantoccio armeno non riconosciuto da nessuno.
La guerra tra Armenia e Azerbaijan è stata molto rapida e molto brutale. Scoppiata alla fine di settembre e finita all’inizio di novembre, si è conclusa con la sconfitta dell’Armenia e un cessate il fuoco che ha visto la cessione all’Azerbaijan di buona parte del territorio conteso.
ETIOPIA
Proprio mentre finiva la guerra in Nagorno-Karabakh ne scoppiava un’altra, in Etiopia. Il governo del primo ministro Abiy Ahmed (tra l’altro vincitore del premio Nobel per la pace nel 2019) ha di fatto dichiarato guerra contro il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, che governa la regione all’estremo nord del Paese e che fino a poco tempo prima era un suo alleato politico. Le forze etiopi hanno condotto una campagna molto rapida riuscendo a conquistare nel giro di un mese Macallè, la capitale del Tigray, dichiarando poi la conclusione dell’offensiva, ma i ribelli hanno detto che intendono continuare a combattere.
MAROCCO-SAHARA OCCIDENTALE
Un altro conflitto apparentemente congelato che si è improvvisamente scongelato nel 2020 è quello tra Marocco e Fronte POLISARIO – un gruppo politico-militare che rappresenta il popolo Sahrawi, abitante del Sahara Occidentale. Dal 1991 in Sahara Occidentale, una ex colonia spagnola a sud del Marocco e da questi occupata al momento della decolonizzazione, vigeva un cessate il fuoco tra le forze marocchine e quelle sahrawi, che da decenni combattono per l’indipendenza della regione. In teoria si sarebbe dovuto tenere un referendum popolare sotto l’egida dell’ONU per decidere il futuro della regione: in pratica il referendum non si è mai tenuto e nel 2020 il Marocco e il Fronte POLISARIO hanno annunciato la ripresa dei combattimenti.
Il tentativo da parte del governo conservatore polacco di irrigidire ancora di più le già particolarmente regressive leggi contro l’aborto ha scatenato negli ultimi mesi del 2020 un’ondata di proteste di piazza con pochi precedenti nella storia del Paese, guidate da giovani e donne e con la bandiera arcobaleno come simbolo. La scintilla è stata una proposta di legge che avrebbe vietato alle donne di abortire anche in caso di malformazioni gravi del feto, accolta dalla Corte Suprema e appoggia dalla Chiesa nonostante sia stata condannata dal Parlamento Europeo. Ma quest’ennesimo attacco alle donne non è passato: il movimento di protesta polacco scende in piazza da mesi e ha già allargato i suoi obiettivi – dalla semplice opposizione alla legge, alla lotta contro le discriminazioni di genere e l’omofobia molto forte nella società polacca.