C’è una domanda che risuona spesso nel dibattito pubblico e alla quale è difficile rispondere senza scadere nel luogo comune: perché, quando parliamo di donne e potere, la destra appare sempre un pezzo avanti rispetto alla sinistra?
Basta fare una rapida ricognizione dei fatti recenti per rendersi conto che se da una parte sono stati in grado di portare al vertice Margareth Thatcher, Angela Merkel, Theresa May e, tra un po’, forse Giorgia Meloni, dall’altra questa capacità – si può dire capacità? – non si è mai espressa compiutamente. Di leader donne a sinistra ricordiamo per lo più avventure sfortunate: oltre all’epica di Arlette Laguiller (storica leader dei trotzkisti di Lutte Ouvriere in Francia), ad avventure come quella di Viola Carofalo con Potere al Popolo o di Janine Wissler che un anno fa ha portato la Linke in Germania al peggior risultato della sua storia, a occupare il centro della scena abbiamo perdenti di straordinario insuccesso come Ségolène Royal (che perse contro Sarkozy e poi vide trionfare il suo ex compagno Francois Hollande) o Hillary Clinton, che si fece distruggere da Trump, che, comunque, all’interno del Partito Democratico statunitense ha sempre rappresentato l’ala destra e che arrivò alla nomination truffando alle primarie la sinistra di Berne Sanders.
Un paio di settimane fa, su Huffington Post, Ritanna Armeni ha parlato di una vittoria di Giorgia Meloni come di un evento che avrebbe grande «valore simbolico» e che sfonderebbe quello che lei definisce «un tetto di cristallo», ovvero l’evidente strapotere maschile nella politica italiana. Ida Dominijanni, su Essenziale, ha comunque ribadito di non conoscere donne intenzionate a votare Meloni «in quanto donna e nonostante le sue idee», riportando in qualche modo la discussione nei più adeguati binari della politica, ricordando cioè che non è mai esistita, nella galassia femminista, la necessità di mettere al potere «una donna» in quanto tale. Anche perché, ricorda Dominijanni, «una donna senza un nome e un cognome non esiste».
Dall’altra parte della Manica, nel Regno Unito, questo problema si pone molto meno e con la nomina di Liz Truss a Primo ministro, arriviamo alla terza avventura femminile al 10 di Downing Street, dopo le già citate Thatcher e May. Era luglio quando, dopo la caduta del pasticcione Boris Johnson, Truss annunciò la sua intenzione di concorrere per la leadership dei Conservatori e, dunque, di diventare Primo ministro del suo paese. Vincitrice annunciata, il 5 settembre ha suonato l’avversario Rishi Sunak e ha guadagnato l’investitura in sostanziale scioltezza.
I suoi idoli dichiarati sono tre: ovviamente Thatcher (nessun conservatore inglese potrebbe dire altrimenti), Ronald Reagan e l’ex Cancelliere dello Scacchiere Nigel Lawson, famoso soprattutto per aver dato alle stampe un best seller su come riuscì a perdere 30 chili di peso in pochi mesi. Il resto è storia comune da classe dirigente per nascita più che per vocazione: figlia di un docente universitario e di un’infermiera (lei sostiene che fossero «a sinistra dei laburisti»), laureata al Merton College di Oxford – dove ha studiato filosofia, politica ed economia -, dopo una gioventù liberaldemocratica (pare che nel cuore degli anni ’90 espresse anche sentimenti repubblicani), nel 1996 ha aderito al Partito Conservatore e ha cominciato la scalata che nel 2010 l’ha portata a farsi eleggere in Parlamento. Dopo qualche esperienza di governo, la sua notorietà ha assunto una caratura globale solo un anno fa, quando, promossa da Johnson a ministra degli Esteri, invitò la Russia a intervenire nella crisi tra la Bielorussia e l’Unione Europea sui migranti bloccati al confine. Poi, nel febbraio scorso, alla vigilia dell’invasione russa dell’Ucraina, si consumò una sua epica gaffe al cospetto di Sergey Lavrov. Durante la tesa discussione sull’aggravarsi della crisi, Lavrov buttò lì una battuta e chiese alla sua omologa britannica se almeno avesse intenzione di riconoscere la sovranità della Russia sulle regione di Rostov e Voronezh, questione sulla quale non ci sarebbe alcun dubbio di legittimità e che nessuno ha mai pensato potessero non far parte del territorio di Mosca. Risposta di Liz Truss: «il Regno Unito non riconoscerà mai la sovranità su queste regioni». Seguirono pezze diplomatiche per cercare di spiegare l’inspiegabile e sostenere che la ministra, in realtà, non ha mai detto quello che in realtà ha detto a chiare lettere. Lo stesso giorno, il ministero degli Esteri di Sua Maestà varò una legge che stringeva le maglie delle sanzioni contro cittadini e organizzazioni russi.
Durante questi mesi di guerra i rapporti diplomatici tra i paesi cosiddetti occidentali e la Russia hanno spesso e volentieri assunto toni da rissa da bar, e Truss ci ha messo del suo. Durante la campagna per la leadership di quest’estate, lo scorso 24 agosto, in un incontro a Birmingham, la Prima ministra designata ha sfidato il tabù di tutti i tabù: l’uso della bomba atomica. «Londra è pronta, se necessario, a utilizzare le armi nucleari – ha detto -. Ritengo che sia un dovere importante del Primo ministro e sono pronta a farlo».
Posto che in questa postmodernità dilagante le parole hanno un peso estremamente ridotto rispetto al passato e che le azioni di governo di solito si manifestano ad anni luce di distanza rispetto alle dichiarazioni dei governanti, in molti hanno notato che si è trattato della prima volta nella storia che la leader (ai tempi in pectore) di un paese importante si lasciasse andare a frasi tanto leggere su un’eventualità che metterebbe a rischio l’esistenza dell’umanità come specie biologica.
Per il resto, Truss affronta gli affari politici con il piglio della colomba divenuta falco: se ad esempio nel 2016 fece campagna per il «Remain» al referendum sulla Brexit, adesso ammette tranquillamente di essersi sbagliata e che il divorzio dall’Unione Europea, almeno secondo lei, ha aperto nuove possibilità per il paese. Da qui la promessa di chiudere il discorso faticosamente avviato da May e disastrosamente portato avanti da Johnson. In economia il programma è di attuare «massicci tagli alle tasse» e di limitare il diritto di sciopero (un vecchio pallino dei conservatori). Sui diritti, pur avendo votato in favore del matrimonio gay e senza essersi mai esposta più di tanto sulle questioni LGBTQ+, Truss si è sempre espressa contro l’autodeterminazione di genere: «I controlli medici sono importanti», questa la sua posizione.
Eredita un paese in grave crisi da più punti di vista, con i sondaggi che danno i Laburisti in larghissimo vantaggio in caso si dovesse tornare al voto in tempi brevi. Non solo, piegato dagli eventi, Johnson non sembra affatto incline a voler abbandonare la scena politica e gli analisti si dicono convinti che prima o poi proverà a riprendersi quello che gli è stato tolto. In fondo, tra i conservatori, la dialettica interna si consuma a colpi di agguati e vendette sin dalla prima guerra mondiale. C’erano alternative a Churchill, c’erano alternative a Thatcher. C’è un’alternativa a Johnson. Ci sarà un’alternativa a Truss.