Mentre la guerra in Ucraina sta proiettando l’asticella della tensione verso altezze inesplorate, Aleksandr Lukashenko ha deciso di giocare di strategia e di cogliere ogni occasione possibile per accrescere ulteriormente il suo potenziale repressivo.
Che il dittatore bielorusso risponda direttamente agli ordini di Putin – e che la Bielorussia rappresenti, di fatto, uno Stato satellite di Mosca – non è una sorpresa per nessuno: l’ennesima conferma di questo assunto è arrivata con il referendum dello scorso 28 febbraio, in cui – in un periodo in cui l’attenzione internazionale era, per forza di cose, proiettata altrove – il 65,16% dei cittadini bielorussi ha votato in favore di alcune modifiche da apportare alla Costituzione, tra cui l’introduzione dell’immunità a vita per gli ex presidenti, la possibilità per Lukashenko – al potere dal 1994, rieletto con elezioni irregolari l’ultima volta nel 2020 – di rimanere in carica come presidente fino al 2035 e, soprattutto, la rinuncia allo status di paese denuclearizzato, che consentirà il dispiegamento di armi nucleari russe nel territorio nazionale.
Questa sostanziale sottomissione ai voleri del Cremlino ha avuto riverberi anche sul piano militare sin dagli inizi del conflitto, quando le truppe di Putin hanno sfruttato il territorio bielorusso come “ponte” privilegiato per entrare in Ucraina da nord e acquisire il controllo della centrale nucleare di Chernobyl; inoltre, nelle settimane precedenti l’assalto, Mosca ha spostato circa 30mila soldati in Bielorussia, ufficialmente per svolgere un «addestramento militare»: (delle prove generali d’invasione a tutti gli effetti); in ultima istanza, anche se ufficialmente Lukashenko sostiene che le sue truppe non siano direttamente coinvolte nella guerra d’aggressione e nega di voler schierarsi al fianco della Russia per la conquista di Kiyv, di fatto il suo apparato di difesa è interamente piegato agli ordini di Putin, configurandosi a tutti gli effetti come una sorta di esercito di riserva sempre pronto a venire incontro alle esigenze di Mosca.
A confermarlo anche Sviatlana Tsikhanouskaya, la principale voce critica di Lukashenko in patria, già candidata nelle contestate elezioni presidenziali di due anni fa – il cui esito elettorale, contestato dalle opposizioni, non è stato riconosciuto dai Paesi dell’Unione Europea. Costretta a cercare rifugio in Lituania dopo essersi opposta a Lukashenko, Tsikhanouskaya, un’ex insegnante, ora si auto-definisce come la legittima leader della Bielorussia. A dicembre suo marito Syarhei, attivista per i diritti umani detenuto dal 2020, è stato condannato a 18 anni per aver sfidato il regime e chiamato il popolo alla rivolta nei confronti del governo, creando i presupposti per l’inizio della stagione nota come “rivoluzione delle ciabatte”, che ha messo in scena le proteste di piazza più rumorose nella storia recente della Bielorussia.
Intervistata dal Guardian, Tsikhanouskaya ha dichiarato che Lukashenko ha perso il controllo delle forze armate, aggiungendo che «l’unica cosa che sta controllando è la repressione contro il popolo bielorusso», in quella che ha definito alla stregua di una vera e propria «occupazione militare della Bielorussia», sino al punto che «Se Putin volesse prendere il controllo dell’intero territorio della Bielorussia, domani potrebbe farlo».
Secondo Tsikhanouskaya, l’obiettivo finale di Putin sarebbe quello di costringere la Bielorussia ad attestarsi parte della responsabilità della guerra d’aggressione in Ucraina, collegando direttamente il regime di Lukashenko all’aggravarsi del conflitto allo scopo di «renderlo complice». Inoltre, a detta di Tsikhanouskaya, il morale dei soldati è ridotto al lumicino – «sono mal preparati, demoralizzati e spaventati», ha detto. Ecco perché sta cercando di convincerli a non partecipare e comunica costantemente con le loro madri, cercando di fare pressione per convincerle a impedire che i loro figli possano perdere la vita per assecondare i voleri del Cremlino.
Insomma, la nuova dottrina militare bielorussa sembra aver rimosso ogni residuo di indipendenza nei confronti di Mosca, e Lukashenko si conferma come il più fedele tra gli Yes-Men di Putin: un burattino completamente piegato ai suoi deliri di onnipotenza.