Non è in Donald Trump che troveremo una guida dopo il doppio colpo subito dalla presidenza martedì 21 agosto. Sappiamo che combatterà fino alla fine, ringhierà contro i suoi avversari e contro chiunque altro proverà a mettersi sulla sua strada. Sappiamo che continuerà a negare i fatti, persino la verità, finché qualcuno non gli porterà via il suo potere e, finalmente, il microfono. Quel giorno non è ancora arrivato, ma è immensamente più vicino di una settimana fa. Adesso l’America sa che tra gli uomini del presidente c’erano altri due criminali.
Ma le persone che contano davvero, nei giorni in cui l’odiosa presidenza Trump inizia a implodere, sono le stesse che hanno sempre avuto per le mani il potere di determinarne il destino: i Repubblicani del Congresso. Le condanne per frode fiscale e bancaria di Paul Manafort, l’ex capo del comitato elettorale di Trump, incideranno sul loro supporto a questa amministrazione? E cosa diranno a proposito di Michael Cohen, l’avvocato personale del presidente, che ha ammesso di aver violato la legge “su indicazione” di Donald in persona? Alla fine i Repubblicani proveranno a salvare almeno loro stessi da questa Casa Bianca impazzita?
È quello che si chiedono tutti.
Siamo arrivati al punto in cui Trump, se non fosse presidente, sarebbe imputato in un tribunale federale, accusato di violazioni finanziarie e chissà che altro. Lasciamo che succeda, proprio mentre la sua amministrazione continua a vendersi come la “Law & Order White House”. I guai legali di Trump continueranno a peggiorare, soprattutto ora che è legalmente collegato a un testimone. Non importa se Cohen sia o meno tecnicamente un collaboratore di giustizia, ha già fatto molti danni alla sua immagine pubblica.
Cosa farà il leader della maggioranza Mitch McConnell? È pronto a fare campagna elettorale per un partito guidato da un uomo coinvolto in una associazione a delinquere, che ha pagato una donna per non parlare di una relazione illecita? E Paul Ryan? Tornerà nel suo Wisconsin a fare cosa, di preciso? A dire ai suoi elettori di confermare i candidati repubblicani, così che possano tornare a Washington a coprire i crimini di Trump e la corruzione della sua amministrazione?
Esiste, insomma, un punto in cui i problemi giudiziari di Trump diventano così profondi da indebolire il suo potere politico? E se non succede adesso, allora quando?
I fatti di martedì non sono “un’altra avventura nella storia dell’inchiesta sui russi di Robert Mueller”. Non sono il solito pomeriggio di assurde allusioni e follia di Rudy Giuliani. Martedì è stato il giorno in cui Donald Trump è diventato molto più colpevole di Richard Nixon durante la saga del Watergate. Da martedì i repubblicani con una coscienza non potranno più negare l’evidenza. E non è merito di Mueller, almeno non direttamente. È stata una giuria della Virginia a distruggere Manafort. Sono stati i procuratori federali di New York, e non di Washington, a incastrare Cohen.
Le prime dichiarazioni rilasciate dai membri del Congresso non sono state incoraggianti.
La senatrice Lindsey Graham, repubblicana del South Carolina che prima insultava Trump e adesso è una dei suoi sostenitori più esagerati, ha fatto di tutto perché il mondo sapesse che la condanna di Manafort e la testimonianza di Cohen non erano collegate alle collusioni con i Russi. Lo stesso ha fatto il senatore John Cornyn, del Texas. Tutto questo mi ricorda una frase che ho sentito quando studiavo legge, a Boston, da uno dei miei clienti. «Non ho rubato quella macchina», mi diceva dalla sua cella. «Bene», ho risposto, «è una buona difesa in un caso di furto d’auto». «No amico, tu non capisci. Io non faccio cose così piccoli. Io spaccio crack. Non rubo mica macchine». Non una buona difesa.
La linea dei repubblicani rischia di diventare qualcosa del tipo: “perdoniamo tutti i suoi crimini, basta che il presidente non abbia cospirato con i Russi”. È una pessima strategia. Poco patriottica. In primo luogo, la collusione del team di Trump con i russi è già ampiamente provata, e la manipolazione della campagna elettorale contro Hillary Clinton è stata dimostrata. Secondo, il processo a Manafort conferma i legami di Trump con i russi, e sicuramente Mueller se ne starà già occupando. Terzo, i pagamenti illegali che ha autorizzato potrebbero essere solo parte dei crimini che ha commesso.
In un mondo sano di mente, il Congresso sarebbe già all’opera per interrogazioni bipartisan, così da esplorare i dettagli della condotta presidenziale. Avrebbero chiarito questa storia prima della nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, perché in una democrazia funzionante è prioritario determinare se il presidente sia o meno un criminale; almeno prima che influenzi la corte più importante del paese. La nazione sarebbe paralizzata, esattamente com’è stato per il Watergate, ad ascoltare le interrogazioni a proposito dei crimini del presidente.
Ma non succederà niente di tutto questo. Non con questa gente. Probabilmente continueranno a fare i tribuni del presidente in diretta televisiva, raccontando di un grande miraggio o di una cospirazione sinistra (che ora comprende anche i 12 giurati del Virginia). Kavanaugh sarà confermato dal Senato e probabilmente proteggerà Trump da Mueller per ogni mandato di comparizione, testimonianza, per ogni accusa. Il presidente, poi, perdonerà Manafort appena potrà farlo senza troppe conseguenze. E proverà a fare la stessa cosa con Cohen, sempre che l’avvocato cambi idea e decida di accettare l’offerta.
Forse sarà proprio questo livello di ostruzione alla giustizia a risvegliare i Repubblicani dal loro immobilismo disastroso. O forse no. La continua difesa di Trump sta diventando sempre più incompatibile con i fatti, e con la legge, e in un certo senso è lo specchio delle allucinazioni di cui soffre il presidente.
Non è così che si guida una legislatura, figuriamoci un paese. Ma eccoci qui, nella canicola di agosto, con un uomo che senza il giuramento presidenziale sarebbe in tribunale, a combattere per restare fuori di prigione.