Questo articolo è stato pubblicato originariamente per il 25 aprile 2020. Assunta Masotti ci ha lasciato il 26 agosto 2022: in occasione della festa della Liberazione, ripubblichiamo questa chiacchierata con uno dei simboli della resistenza italiana
“È in gioco l’avvenire”, disse Ferruccio Parri, nome di battaglia Maurizio, comandante partigiano ma conosciuto soprattutto come l’uomo della Resistenza, il 26 settembre 1945 chiudendo il suo discorso di apertura dei lavori della Consulta – l’Assemblea legislativa provvisoria, non elettiva, istituita dopo la seconda guerra mondiale. 75 anni dopo, le sue parole sono più attuali che mai.
Perché se è vero che il futuro, per sua definizione, è sempre in gioco, la pandemia di coronavirus amplifica ancora di più la necessità di agire. Ma se non possiamo né vogliamo paragonare quello che stiamo vivendo oggi quegli anni, possiamo stare a sentire chi li ha vissuti ed è ancora qui per raccontarceli.
Lo ha detto benissimo Francesco Guccini in una recente intervista a Repubblica: “Al 25 aprile del 1945 arrivammo dopo averci messo vent’anni a liberarci da quello che aveva chiesto i pieni poteri e tornare a vederci, ridere, ballare. Fu una Liberazione molto più profonda, non si può paragonare a due mesi in casa”. Ce lo ripete Assunta Masotti, 98 anni, nata a Conventello, uno dei luoghi più vivi della Resistenza romagnola.
Staffetta partigiana a 18 anni, oggi Assunta vive in una casa di riposo a Ravenna e da lì ha deciso di rispondere alle nostre domande, registrando lei stessa un racconto audio della sua Resistenza. “Il giorno della Liberazione qui dove abito io fu il 22 gennaio 1945, un mese in prima linea, quattro mesi prima della liberazione di tutto il Paese, il 25 aprile. Contavamo chi non c’era più, chi era tornato. Si poteva essere felici e anche molto stanchi di tutta quella situazione ma avevamo la certezza che quel virus era finito”.
È questo l’unico modo in cui Assunta accosta il coronavirus alle vicende di quegli anni. Di cui ricorda moltissimi dettagli, che ha portato per tutta la vita dentro le scuole italiane, raccontando la guerra, quella che lei ha fatto senza armi, come tantissime donne che hanno ricoperto il suo stesso ruolo.
“Il mio nome di staffetta era Santina, lo sono diventata per caso. La casa dove vivevo con la mia famiglia era stata scelta da Bulow [nome di battaglia del comandante partigiano Arrigo Boldrini] e altri suoi colleghi come sede del comando militare partigiano, d’accordo con mio padre, unico uomo della famiglia in mezzo a sei donne. Fu lui a farmi conoscere, dopo aver ricevuto il mio consenso. Bulow mi chiese da subito di diventare la sua staffetta. Accettai lusingata sperando di essere all’altezza del compito. E me la sono cavata bene”.
Quello di staffette fu uno degli incarichi più diffusi tra le donne partigiane, ma anche tra gli uomini più giovani. “Portavo messaggi”, racconta Assunta. “Portavo armi, procuravo medicinali, coperte, maglioni e preparavo insieme alle altre il vitto per i partigiani”.
Assunta si muoveva a piedi o in bicicletta ed era disarmata, come tutte le staffette. Per questo non poteva difendersi. “Sinceramente, avevo paura, tanta paura, tantissima. Ero cosciente dei pericoli, e devo dire che mi è andata bene. Resistere significa essere coscienti e responsabili di situazioni disastrose per i popoli civili. Significa non lasciarsi ingannare da chi fa propaganda facile. Noi, come democratici, dobbiamo saper reagire”.