Le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti del 2018 sono come il Natale, hanno portato doni per tutti. Per il presidente Trump, che vede la sua popolarità intatta tra i suoi elettori: le sue apparizioni in Florida e Texas sono state salvifiche per candidati in difficoltà. Proprio in quest’ultimo stato Ted Cruz, candidato da lui sconfitto e umiliato alle presidenziali del 2016, ha chiesto il suo aiuto per battere il suo avversario, il trascinatore e carismatico deputato Beto O’ Rourke. In Florida uno dei campioni dell’ala sinistra dei democratici, il candidato governatore Andrew Gillum, è stato sconfitto di misura da Ron DeSantis, deputato appoggiato da Trump dopo essere stato notato in uno spot tv.
Ma anche i democratici hanno buoni motivi per sorridere. Due campioni della destra repubblicana, il candidato governatore del Kansas Kris Kobach e il governatore del Wisconsin Scott Walker sono stati battuti. Le loro posizioni estreme in materia di immigrazione e diritti sindacali alla fine sono state decisive per alienare una fetta di elettorato che nel 2016 aveva sostenuto Trump. Persino la leader dei democratici alla Camera, Nancy Pelosi, ha motivi per tirare un sospiro di sollievo. Fortemente criticata per il suo profilo elitario da donna bianca benestante che vive a San Francisco, città simbolo del radicalismo chic americano, alla fine è riuscita a farsi eleggere nuovamente speaker, carica che già aveva occupato dal 2007 al 2011.
Infine Bernie Sanders, nonostante la sconfitta di Andrew Gillum in Florida, da lui sostenuto e che avrebbe potuto essere il primo afroamericano governatore del Sunshine State, ha comunque mostrato di essere influente: sia Alexandria Ocasio-Cortez che Ayanna Presley, giovani attiviste della sua campagna nel 2016, sono state elette al Congresso.
Ma allora chi è che ha perso? Abbiamo visto le importanti sconfitte di due estremisti repubblicani, Kris Kobach e Scott Walker. Hanno dovuto lasciare il loro posto anche quei senatori democratici provenienti da stati conservatori che si sono rifiutati di sostenere il giudice Brett Kavanaugh, accusato dalla professoressa Christie Blasey Ford di averla molestata negli anni delle scuole superiori. Solo Joe Manchin, democratico del West Virginia, è riuscito a spuntarla. Proprio perché è stato l’unico di questi democratici a sostenerlo. E questo può averlo salvato dall’assalto di Trump, che ha visitato lo stato per ben due volte.
Hanno perso i vecchi arnesi della politica: l’ex governatore del Tennessee Phil Bredesen, un moderato ultrasettantenne che era stato in carica dal 2003 al 2011, è stato stroncato dalla sua avversaria Marsha Blackburn, volto piacevole ed educato del trumpismo del quale però condivide ogni singola posizione. Hanno perso anche i candidati carismatici che hanno nazionalizzato la competizione in contesti ostili: Beto O’ Rourke si è lanciato nella difesa della protesta del giocatore di football Colin Kaepernick contro il razzismo durante l’inno nazionale e questo in uno stato con un immenso elettorato rurale può aver deciso la competizione.
Hanno perso anche quei repubblicani opportunisti che speravano in un Trump ridimensionato per cambiare rotta. Infine, a suo modo, anche la Rust Belt ha perso. O meglio, si è accorta di aver preso un abbaglio nel sostenere Trump. I tre stati postindustriali che hanno deciso la sua incredibile elezione nel 2016, Wisconsin, Michigan e Pennsylvania hanno tutti eletto candidati democratici. In conclusione, chi sperava di vedere provato nelle urne che Donald Trump fosse soltanto un presidente accidentale, eletto soprattutto per gli errori della sua avversaria, si è dovuto ricredere: The Donald è un osso duro e un formidabile animale politico da campagna elettorale. Chi lo ha affrontato di petto in contesti non favorevoli è stato spazzato via. Il candidato ideale del 2020 dovrà batterlo guardandolo negli occhi. E guardando negli occhi anche quell’America di bianchi lavoratori che, fino all’elezione di Barack Obama, votava costantemente per i democratici.