Questo non è un gran periodo per Facebook. A partire dal 13 settembre, quando il Wall Street Journal ha pubblicato la prima di una serie di inchieste denominata “The Facebook Files”, il social network più popolare del mondo si è trovato al centro di un vortice crescente di accuse, rivelazioni scomode e udienze parlamentari. Come se non bastasse, il 4 ottobre tutte le piattaforme di proprietà all’azienda di Mark Zuckerberg – principalmente Facebook, Instagram e WhatsApp – sono state inutilizzabili per quasi sei ore per via di un cambiamento di configurazione dei router che ha mandato K.O. i servizi dell’azienda. Oltre ad aver causato enormi problemi alle persone che si affidano ai loro servizi per lavorare o per comunicare informazioni fondamentali, il down sembra essere costato alla compagnia 163 mila dollari di ricavati al minuto, per un totale di circa 60 milioni di dollari. I titoli della compagnia sono scesi del 15%, Zuckerberg ha personalmente perso 6 miliardi di dollari e la politica si è ricordata come mai non è la migliore delle idee permettere una tale centralizzazione dei servizi web.
Facebook non attraversa una crisi tanto evidente dai tempi dello scandalo di Cambridge Analytica, nel 2018. All’epoca, a suonare il campanello d’allarme era stato un dipendente della società di consulenza britannica che aveva raccolto illecitamente i dati personali di 87 milioni di utenti Facebook per provare ad influenzare l’opinione pubblica a favore di campagne politiche come quella a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea o per l’elezione di Donald Trump alla presidenza USA.
Questa volta, a dare l’allarme è stata una whistleblower, la data engineer Frances Haugen, che ha lavorato come product manager nel team Integrità Civica di Facebook dal 2019 fino al suo smantellamento, all’inizio del 2020. Attratta dall’idea di contribuire agli standard dell’azienda relativi alla disinformazione dopo che un’amica era stata radicalizzata online, Haugen ha deciso di lasciare la compagnia ad aprile – e ha passato l’ultimo mese a Facebook a salvare segretamente enormi quantitativi di documenti interni, utilissimi per comprendere cosa succede veramente dietro alla facciata estremamente opaca del gigante. Haugen ha poi condiviso i documenti con il Wall Street Journal e con la Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori.
Le cose che abbiamo scoperto grazie ad Haugen sono tantissime. C’è il sistema XCheck, una corsia preferenziale che ha permesso per anni a VIP e politici di pubblicare contenuti controversi con una moderazione scarsa o nulla. C’è il tentativo di contrastare un tasso di coinvolgimento degli utenti in declino modificando l’algoritmo in modo che desse priorità alle “interazioni significative” tra gli utenti, ma che ha finito per rendere Facebook un posto ancora più tossico e arrabbiato. C’è il generale disinteresse della leadership aziendale verso il contrasto degli abusi che avvengono sulla piattaforma, soprattutto se avvengono lontani dalla sfera occidentale, e la conseguente proliferazione di traffico di esseri umani e incitazione della violenza etnica. C’è l’ormai nota questione della disinformazione sul vaccino contro il Covid-19 che continua ad inondare il social network. C’è l’ossessione con l’intercettare nuovi segmenti sempre più giovani di utenti, pur sapendo che una percentuale non indifferente di teenager ritiene che Instagram abbia peggiorato molto la loro salute mentale e la loro immagine di sé. Ma soprattutto, ci sono le prove che Facebook è consapevole di tutte queste cose.
Sono state soprattutto le rivelazioni sull’effetto dei prodotti di Facebook sui più giovani che ha fatto preoccupare il Congresso statunitense al punto da chiamare Haugen a testimoniare. La whistleblower ne ha approfittato per dipingere un quadro molto completo della situazione. “Non si tratta semplicemente di alcuni utenti dei social media arrabbiati o instabili, o di una parte che si radicalizza contro l’altra”, ha detto Haugen al Congresso. “È Facebook che sceglie di crescere a tutti i costi, diventando un’azienda da quasi trilioni di dollari acquistando i suoi profitti con la nostra sicurezza”. In un discorso che ha spaziato dalla sicurezza nazionale alla polarizzazione, dalla violenza etnica ai disturbi alimentari, Haugen ha più volte fatto il nome di Mark Zuckerberg, affermando che alla base delle storture delle piattaforme che appartengono a Facebook c’è il fatto che nessuno ha la forza di andare contro la volontà del fondatore, e che la cultura aziendale da lui coltivata non concepisce l’idea di mettere la sicurezza degli utenti sopra alla crescita.
Dal canto proprio, Facebook sta avendo enormi difficoltà a difendersi credibilmente dalle accuse: un recente comunicato in risposta alle affermazioni di Haugen dice che “ogni giorno i nostri team devono bilanciare la protezione del diritto di miliardi di persone di esprimersi apertamente con la necessità di mantenere la nostra piattaforma un luogo sicuro e positivo. Continuiamo ad apportare miglioramenti significativi per contrastare la diffusione della disinformazione e dei contenuti dannosi. Suggerire che incoraggiamo contenuti scadenti e che non facciamo nulla è semplicemente falso”.
Il contenuto dei Facebook Files prima e la testimonianza diretta della whistleblower poi sembrano aver smosso dal torpore la politica statunitense, che da anni parla a vuoto di regolamentazione delle piattaforme senza riuscire a trovare uno straccio di base condivisa da cui partire.Anche ora, i legislatori si trovano a dover cercare delle soluzioni a una serie di problemi distinti ma interlacciati: Facebook è troppo grande, troppo opaco, non investe sufficienti risorse per mettere al sicuro i propri utenti, e in alcuni contesti accelera rischi di sicurezza nazionale. Semplicemente, come scrive il giornalista Charlie Warzel, “Facebook è malvagio nel modo in cui lo sono tutte le attività iper-capitaliste non regolamentate. In fin dei conti, non importa cosa c’è nei loro cuori. Importa cosa stanno facendo le loro azioni alle persone”.