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Non è uno scherzo: Bolsonaro è stato premiato per il suo “altruismo” verso gli indigeni

Il presidente brasiliano è stato onorato dal suo stesso governo di una “medaglia al merito indigeno”. Le accuse di genocidio e la commercializzazione delle loro terre sembrano, ormai, soltanto un lontano ricordo

Foto di Andressa Anholete/Getty Images

Sembra passata un’eternità da quella mattinata surreale dell’8 ottobre del 2018 quando, folgorati sulla via di Damasco, ci siamo risvegliati con un ex artigliere dalle aperte simpatie fasciste (e accanito sostenitore dei metodi resi celebri in patria dalla dittatura militare di Humberto de Alencar Castelo Branco, che ha tenuto in pugno il Brasile fino al 1985) alla testa della sesta potenza economica mondiale.

Se questi tre anni abbondanti ci hanno insegnato qualcosa è che, sotto la regia del numero uno del Partido Social Liberal, il Brasile è diventato un Paese peggiore, funestato da politiche sconsiderate che non hanno fatto altro che impoverire la popolazione, esacerbare le disuguaglianze e gli sviluppi della catastrofe ambientale e, soprattutto, azzerare i diritti degli indigeni.

Da quando è salito al potere, Bolsonaro ha messo in campo ogni mezzo utile per mantenere fede alla sua agenda neoliberista, anti-indigena ed ecocida, incoraggiando l’utilizzo delle terre indigene e delle aree protette dell’Amazzonia, duramente colpite dalla deforestazione e dalle miniere illegali, per agevolare lo sfruttamento delle risorse e aprire il polmone della Terra alle meraviglie del libero mercato. Ha paragonato i loro abitanti ad animali rinchiusi negli zoo, suggerendo che le loro condizioni di vita avrebbero vissuto un netto miglioramento se soltanto avessero scelto di rinnegare una volta per tutte i loro costumi tribali e le loro usanze ancestrali per buttarsi a capofitto nella modernità trasformandosi in imprenditori, godendo di una fetta dei profitti che sarebbero derivati dall’apertura dei loro terreni all’allevamento, all’agricoltura, al taglio del legname e all’estrazione.

La sua offensiva senza quartiere nei confronti di queste popolazioni era stata già chiarificata durante la campagna elettorale per le presidenziali, quando giunse a etichettare le riserve come un ostacolo per l’attività delle aziende agricole, sue grandi sostenitrici e rappresentate in Congresso dalla lobby conosciuta come “bancada ruralista” – «Se diventerò presidente, non ci sarà un centimetro quadro di territorio designato come riserva indigena», aveva dichiarato nel 2017 in una delle tappe della sua campagna elettorale, nello stato agricolo del Mato Grosso. In quei giorni, l’allora candidato del PSI non perdeva occasione per ribadire la sua volontà di smantellare il FUNAI, il Dipartimento agli Affari Indigeni del governo incaricato di proteggere le terre indigeni, che da anni stava già lottando contro un pesante ridimensionamento, contrassegnato da severi tagli al budget e, quindi, da una libertà di manovra sempre più limitata.

Una profezia che, alla fine, ha finito per avverarsi: con l’avvento di Bolsonaro, i poteri – come abbiamo visto, già labili – del FUNAI sono stati ulteriormente ridotti all’osso: il neo presidente ha dato inizio alla sua opera di demolizione a poche ore dal suo insediamento, nel gennaio del 2019, prima trasferendo il dipartimento dal ministero della Giustizia a un dicastero fantoccio e privo di un reale potenziale d’azione – quello che la nuova giunta ha denominato genericamente come ministero dei Diritti umani, della famiglia e delle donne – e, successivamente, delegando l’identificazione degli habitat tradizionali degli indigeni e la loro designazione come territori inviolabili protetti – un compito attribuito al FUNAI direttamente dalla Costituzione brasiliana – al Ministero dell’Agricoltura.

Il terzo atto della crociata del Partido Social Liberal ha interessato il posizionamento di personale fedele al credo delle privatizzazioni di Bolsonaro ai vertici del FUNAI: per realizzare questo disegno, nell’estate di quello stesso anno, il presidente ha nominato Marcelo Xavier da Silva, un agente di polizia federale con forti legami con l’agro-business, a capo del dipartimento – un profilo che, a detta dell’ex presidente del FUNAI Gen Franklimberg de Freitas, «spuma odio» per gli indigeni, percependoli «un ostacolo allo sviluppo nazionale».

Nell’aprile del 2020 la “dottrina da Silva” ha iniziato a prendere corpo: il FUNAI ha infatti autorizzato la registrazione e la vendita di terreni su territori indigeni non ratificati o non registrati, aprendo la strada a una compravendita che avrebbe potuto interessare 237 riserve dislocate in 24 stati – Per fortuna, a evitare questo esito disastroso ha pensato il procuratore generale dello Stato del Mato Grosso, che due mesi dopo ha presentato un’istanza di annullamento, definendo l’autorizzazione come un abbandono della missione del FUNAI. L’intervento del procuratore, però, non è bastato: un’inchiesta della BBC ha infatti scoperto su Facebook decine di annunci pubblicitari per la vendita di pezzi di foresta amazzonica o di aree appena disboscate da persone che se ne sono impossessate illegalmente e con metodi violenti, com’è possibile osservare in questo documentario:

Un quadro aggravato anche da una delle gestioni della pandemia più scellerate al mondo: la risposta brasiliana al coronavirus da parte dell’amministrazione Bolsonaro è stata un completo disastro, a partire dalla promozione di cure bizzarre come il cosiddetto kit-Covid, ossia un insieme di farmaci terapeutici la cui efficacia non provata scientificamente, come l’idrossiclorochina o l’ivermectina antiparassitaria, fino ai ritardi nella fornitura di vaccini – secondo quanto dichiarato in aula da Carlos Murillo, direttore generale di Pfizer per il Sudamerica, il colosso farmaceutico tentò di negoziare la vendita di vaccini al Brasile ben sei volte, cinque nel 2020, a partire già dal mese di agosto, e un’ultima nel febbraio 2021. In questo contesto, il governo non avrebbe risposto a 53 delle 81 mail di proposta d’acquisto da parte di Pfizer, rallentando notevolmente la fornitura e la somministrazione dei vaccini nel Paese. L’anno scorso, mentre le piazze delle principali città brasiliane si riempivano di manifestanti uniti al gridi di “Fora Bolsonaro!”, alcuni senatori di opposizione hanno addirittura dichiarato di essere in possesso di prove che potrebbero certificare l’instaurazione di una specie di ministero della Salute parallelo, in cui sedicenti esperti e consiglieri di fiducia avrebbero proposto al presidente di adottare strategie e rimedi privi di qualsiasi fondamento scientifico. 

Se l’impatto della pandemia ha colpito l’intera popolazione, nel caso degli indigeni i risvolti sono stati ancora più pesanti: almeno 78 popolazioni indigene sono state contagiate dal COVID-19, principalmente per via dell’intromissione dei land grabbers nei loro territori, e mancano dati dettagliati sulle rimanenti 33. Gli esperti ritengono che la povertà, la bassa resistenza alle malattie occidentali e la mancanza di strutture mediche siano alla base di tale vulnerabilità.

Nel gennaio del 2021, Raoni Metuktire dei Kayapo e Almir Narayamoga Surui della tribù Paiter Surui, due leader indigeni, hanno presentato al tribunale dell’Aia un dossier dettagliato per provare a fotografare lo stato dell’arte della “cura bolsonaro”: pagine che hanno evidenziato come la deforestazione, i trasferimenti arbitrari di intere comunità e gli omicidi di leader indigeni si siano impennati da quando Bolsonaro ha preso il potere nel 2019. Il caso è stato portato davanti alla Corte Penale Internazionale, dove il leader del PSL è stato accusato di crimini contro l’umanità e genocidio.

Per tutti questi motivi, le popolazioni in questione hanno tutto il diritto di sentirsi oltraggiate per quanto accaduto il 16 marzo, quando Bolsonaro è stato onorato dal suo stesso governo di una “medaglia al merito indigeno” per il suo agire “altruistico” nei confronti delle popolazioni dell’Amazzonia. Il ministro della Giustizia Anderson Torres ha assegnato la medaglia a Bolsonaro e ad altre 25 persone – tutte vicine al presidente –«in riconoscimento del loro significativo servizio altruistico per il benessere, la protezione e la difesa delle comunità indigene», si legge nel decreto pubblicato sulla gazzetta ufficiale.

Nella stessa giornata, l’esploratore brasiliano e storico attivista per i diritti degli indigeni Sydney Possuelo ha deciso di restituire la stessa medaglia, di cui fu insignito 35 anni fa, in segno di protesta. In una lettera feroce, Possuelo ha poi affermato di aver ricevuto la notizia della decorazione di Bolsonaro con «immensa sorpresa e naturale stupore», dato che onorare il presidente brasiliano in questo modo è stata una «contraddizione lampante, colossale, palese».

Se la situazione non fosse così tragica, una decisione così incomprensibile e irrispettosa farebbe quasi ridere: eppure, sotto Bolsonaro, in Brasile sembra ormai tutto lecito. Dopo il danno, per le popolazioni indigene è arrivata anche la beffa.

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