Driver e rider scendono in piazza. La settimana che sta per iniziare sarà cruciale per la lotta di autisti e ciclo-fattorini che lavorano per le piattaforme di e-commerce e delivery nel nostro Paese: lunedì 22 marzo si terrà il primo sciopero nazionale di tutta la filiera Amazon; giovedì 26 in 32 città incroceranno le braccia i rider di Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats. Due proteste distinte in un periodo incandescente: con l’Italia quasi interamente in zona rossa, il settore delle consegne a domicilio è ritenuto tra i più essenziali. Due proteste che proprio per questo esplodono in piena pandemia: alla base, la convinzione che sia giunto il momento di pretendere che i diritti dei lavoratori della gig economy siano garantiti e rispettati.
Ma vediamo nei dettagli. Lo sciopero Amazon del 22 marzo lo hanno proclamato Filt Cgil, Fit Cisl e Uilt, i sindacati confederali dei trasporti che rappresentano i driver che consegnano la merce a domicilio a bordo di furgoni e simili. La miccia è stata la rottura della trattativa con Assoespressi, associazione che raggruppa le aziende attive nell’e-commerce, specializzate nell’attività di distribuzione dell’ultimo miglio. E non che nel settore non ci siano stati precedenti, ma questa volta l’invito a partecipare alla protesta è stato esteso a tutte le categorie di lavoratori della big tech di Jeff Bezos, inclusi i rider che ogni giorno vediamo sfrecciare per le strade in bici e scooter e gli smistatori di pacchi che compongono la catena di montaggio negli hub e nei magazzini Amazon sparsi per il territorio. In totale circa 40 mila lavoratori, solo in minoranza sindacalizzati, che hanno ogni motivo per manifestare e lamentarsi: le questioni sul tavolo vanno dalla verifica dei turni, dei carichi e dei ritmi di lavoro imposti, alla continuità occupazionale in caso di cambio di appalto o fornitore, e ancora dalla stabilizzazione dei tempi determinati e dei lavoratori interinali al rispetto delle normative su salute e sicurezza.
Quanto alla protesta del 26, è promossa dalla rete «RiderXidiritti», che ha invitato anche i consumatori a boicottare le piattaforme Deliveroo, Just Eat, Glovo e Uber Eats in segno di solidarietà. In questo caso si tratta di una prova di forza da parte dei lavoratori dopo che le suddette società sono state multate dalla procura di Milano per 733 milioni di euro, con l’obbligo di assumere come parasubordinati almeno 60 mila rider. Sembrerebbe, infatti, che nonostante gli enormi interessi in gioco – solo Glovo conta 10 mila rider attivi nello Stivale e oltre 15 mila partnership con esercizi commerciali –, la maxi inchiesta milanese abbia permesso ai rider di sferzare un bel colpo alle piattaforme, se è vero che in aula il pm Francesco Greco è arrivato a citare Ken Loach e il suo film Sorry, We Missed You, sulla vita infernale dei fattorini nel Regno Unito, e ad affermare che «ci troviamo davanti a un’organizzazione aziendale che funziona attraverso l’intelligenza artificiale, non c’è più il caporalato che conoscevamo prima, con il caporale che sorveglia i lavoratori, in questo caso è un programma a sorvegliarli, e questo è un problema che ha dei risvolti giuridici». Peccato, però, che siano già partiti i ricorsi e non sia assolutamente certo che le posizioni dei 60 mila di cui sopra saranno effettivamente regolarizzate e che gli stessi saranno riconosciuti non più come lavoratori autonomi e prestatori di collaborazioni occasionali, bensì riqualificati come collaboratori coordinati e continuativi. Tradotto: a differenza di quanto molti titoli sensazionalistici circolati nei giorni scorsi tendano a far credere, la verità è che niente è ancora detto e che quella che si profila è una lunga battaglia legale all’ultimo colpo, considerate anche le annunciate cause civili che nei prossimi mesi saranno presentate da rider di ogni sesso ed età nei tribunali di tutto il Paese. Poi, come si diceva, ci sono i ricorsi delle società sotto attacco, che stanno contestando i verbali dell’Ispettorato del lavoro alla base dell’inchiesta, sostenendo di essersi sempre mossi in rispetto alle leggi italiane sul lavoro. E questo è forse il punto che più di tutti meriterebbe un approfondimento.
A tal proposito, proprio in questi giorni è uscito Candido (La Nave di Teseo), il nuovo libro di Guido Maria Brera, già autore de I Diavoli – titolo alla base dell’omonima serie – e La fine del tempo. Se in questi suoi due scritti il finanziere e scrittore romano, co-fondatore e Chief Investment Officer di Kairos Partners, aveva raccontato le storture della tecnofinanza, questa volta il ricorso alla letteratura (con la complicità del collettivo I Diavoli) diventa un escamotage per parlare di quella «grande menzogna della sharing economy» che ormai da tempo si è disvelata per ciò che è: un inganno utile ai proprietari delle grandi piattaforme per mettersi in tasca miliardi e miliardi di dollari, basato su una forte deregolamentazione del mercato che non ha fatto che cancellare i diritti di enormi schiere di lavoratori barattandoli con prodotti di consumo a basso costo e comfort vari, e aumentando così le diseguaglianze sociali. La narrativa va, dunque, in soccorso ai nuovi schiavi del tech e lo fa con uno sguardo distopico, visto che quella descritta in Candido è una realtà collocata un po’ più in là nel futuro, ma abbastanza vicina a quella odierna da sembrarne il naturale proseguimento. Non per niente la storia è ambientata in una Milano post-pandemia e Candido è il nome del protagonista, richiamo – questo – al celebre testo con cui Voltaire volle confutare le teorie ottimistiche leibniziane, inserito all’interno di un romanzo con echi di 1984 di Orwell o Il cerchio di Dave Eggers. Già, perché il personaggio in questione è un giovane rider felice di esserlo, e questo nonostante pedali tutto il dì come un pazzo senza guadagnare quasi nulla e viva in una società completamente automatizzata, dove il controllo delle persone è assoluto e i cittadini non sono che schiavi al servizio del sistema, pezzi di un ingranaggio inarrestabile che promette protezione e sicurezza in cambio di cessione di diritti e libertà. Ma per lui, l’ingenuo Candido, non c’è da lamentarsi, lui è straconvinto di vivere nel migliore dei mondi possibili e in quel sistema ha piena fiducia, così che nel libro ciò che si ripercorre è la conquista di quella consapevolezza che finalmente lo aiuterà a comprendere la verità su se stesso e sul mondo.
Ecco, il punto è: con questo romanzo pronto per la trasposizione cinematografica, Brera mette in atto un’operazione che appare primariamente e volutamente educativa, il che va bene, è giusto che si allertino soprattutto i più giovani che liberismo e globalizzazione spinti non sono santità di fronte alle quali inginocchiarsi. Ma viene da chiedersi: non è tempo che la gigantesca mole di parole e immagini sui rider schiavizzati messa in campo con libri, saggi, film, reportage televisivi, podcast e articoli giornalistici (ricordiamo che il toccante lungometraggio di Loach sul tema è del 2019 e che già nel 2018 si era costituita a Bruxelles l’assemblea europea dei ciclofattorini) cominci a lasciare spazio a un dibattito rigoroso e di più ampio respiro a favore di una riforma del lavoro organica e studiata in modo da cancellare quei buchi legislativi che notoriamente non solo le multinazionali della tecnologia sfruttano per farsi i propri comodi col minimo delle spese? Già, perché non ci sono mica solo i rider. E nemmeno solo i magazzinieri e gli autisti del tech. E oltretutto, come sottolineato, quella promessa di trasformazione dei ciclo-fattorini in Co.co.co, per realizzarsi, dovrà passare per le trame della lentissima giustizia italiana e, anche in caso di successo, potrebbe aiutare realmente la categoria in questione solo ed esclusivamente se ai lavoratori sarà concesso un equo compenso.
La questione è spinosa e il modo in cui è stata finora affrontata nasconde vizi di forma che rischiano di ledere la sostanza del discorso, sostanza che riguarda decine di migliaia di lavoratori attivi nei settori più disparati, non solo in quelli del delivery e dell’e-commerce. Per districarsi bisognerebbe accantonare la narrazione mediatica che si è replicata negli anni sempre con la stessa superficialità, ossia aderendo a una retorica sui rider-schiavi ben mescolata con quella sui rider-eroi, provocando così confusione e chiamando in causa solo marginalmente i governi. Nel caso dell’inchiesta milanese, ancora una volta la magistratura si è vista costretta a intervenire a causa dell’inerzia del legislatore e, se quest’ultimo non si muoverà, ancora una volta il risultato rischia di essere sempre e solo uno: tanto rumore per nulla. Al contempo, auspicare una riforma del lavoro più aderente al mercato del lavoro così come ha preso forma negli ultimi vent’anni significa operare una distinzione tra precarietà e flessibilità, laddove la prima è una condizione cui si è costretti e la seconda può anche essere una scelta. Basti pensare a chi fa il rider per arrotondare o pagarsi gli studi e che della flessibilità ha bisogno e magari gli fa pure comodo.
Il problema è che in Italia, complici i sindacati troppo spesso fermi su dogmi anacronistici, ogni dibattito sul mondo del lavoro finisce costantemente per incentrarsi sulla dicotomia dipendenti/precari, dicotomia superata da almeno un ventennio. Sicuri che un rider sarebbe contento di vedersi regolarizzato come parasubordinato, quando i contratti di Co.co.co. sono perlopiù carta straccia in cui le aziende possono infilare condizioni ricattatorie sia dal punto di vista della possibile chiusura della collaborazione, sia sotto il profilo dei compensi elargiti? E allargando lo sguardo ai liberi professionisti, si provi a chiedere ai diretti interessati qual è il vero problema della loro occupazione: l’essere liberi di lavorare per più clienti o l’eventuale abbassamento dei compensi e i ritardi nei pagamenti? In Italia sono decine le società che sanno di poter contare su vuoti normativi per loro vantaggiosi, e sarebbe ora di eliminarli, quei vuoti. Tornando ai ciclo-fattorini, si è visto quali frutti ha prodotto il famigerato “decreto Rider” del Governo Conte I: «Ha rappresentato certamente un passo in avanti», ha detto all’HuffPost Danilo Morini della Filt Cgil, «ma nella normativa italiana restano dei buchi in cui poi le associazioni datoriali si inseriscono». Forse sarebbe ora di smetterla di annunciare finte soluzioni e puntare su politiche del lavoro che davvero abbiano come fine ultimo la dignità dei lavoratori difesa dall’articolo 36 della Costituzione, e quindi il rispetto di quell’articolo indipendentemente da qualsiasi cavillo ci si possa inventare. Questo significherebbe anche aprire una riflessione sul succitato equo compenso che nel 2021 non può escludere partite Iva e parasubordinati, vittime di ristrutturazioni aziendali attuate secondo un unico criterio: ridurre i costi, non importa a che prezzo per chi è assunto, figuriamoci per chi non lo è, e qui un esempio lampante sono i giornalisti freelance pagati pochi euro ad articolo da editori le cui testate spendono parole e pagine in difesa di rider, braccianti e badanti, tacendo quando i lavoratori sfruttati e sotto ricatto sono i loro. Tra l’altro, si ricordi che “grazie” a una deroga il rinnovo anche in aeternum delle collaborazioni continuate e continuative è possibile per legge per gli iscritti a diversi ordini professionali e che in generale il valore legale delle tariffe massime e di quelle minime stabilito dagli stessi ordini è solo indicativo, vale a dire nullo.
Questa la situazione attuale nonostante due leggi approvate in tempi più o meno recenti, la Fornero (governo Monti) e il Jobs Act (Renzi). I rider fanno bene a scendere in piazza? Sì, ma che contemporaneamente il legislatore ripensi a una riforma del lavoro che punti a una redistribuzione della ricchezza per non lasciare indietro nessuno e che sia scritta in maniera chiara, perché è evidente che qualsivoglia ambiguità non sarebbe altro che l’ennesimo regalo a quelli che una volta erano chiamati i “padroni”. Di Candido come il ciclo-fattorino tratteggiato da Brera con un linguaggio divulgativo, quasi da favola sci-fi per ragazzi, è pieno il mondo e anzi, da tempo i Candido si sono persino organizzati per scendere in piazza, ma in tutta questa dialettica tra le parti resta un grande assente, la politica. E si eviti di parlare di “DeliveryGate”, è un riduzionismo fuorviante e che talvolta puzza di furbizia.