Cose che ha fatto Marco Rizzo negli ultimi tempi: sostenere che “Lenin e Stalin sono meglio di Renzi”, prendersela con Alberto Angela per un servizio considerato offensivo nei confronti dell’Unione Sovietica, annunciare una “Brexit anticapitalista” in Italia, criticare apertamente Greta Thunberg e la sua lotta, esprimere – ovviamente – solidarietà ad Assad e Maduro. Alle elezioni europee Marco Rizzo e il suo Partito Comunista hanno preso 234.232 voti, lo 0,88% del totale. La Sinistra 465.092, l’1,74%. Insomma, conveniva quasi fare campagna elettorale sostenendo che Aleksandr Solgenitsin fosse un impostore.
E così il voto del 26 maggio ha rinnovato una tradizione tutta italiana: la morte della sinistra. Che, invece, come in un film di Bruce Willis senza lieto fine, a più riprese ha dimostrato di saper reggere alla grande la parte dell’agonizzante. Metaforicamente e con tutto il rispetto per chi ci ha creduto e ci crede, ci auguriamo che questa volta sia stata l’ultima.
Se le elezioni hanno fatto registrare il ritrovato – e ancora flebile – battito del Pd, per chi si colloca oltre alla creatura di Zingaretti il risultato è stato terrificante. Ed è impensabile – o forse no – che non porti a un ripensamento complessivo del percorso delle forze politiche che hanno svuotato di senso (oltre che di voti) quell’area.
Qualche numero, detto della debacle della Sinistra guidata da Nicola Fratoianni e del primo passo compiuto da Marco Rizzo verso la rivoluzione bolscevica. Europa Verde ha racimolato il 2,29%: non è un cattivo risultato – soprattutto se si considera il solito psicodramma che aveva caratterizzato la campagna elettorale, con la scoperta di “infiltrazioni” di estrema destra nelle liste e il conseguente abbandono di Pippo Civati –, ma rimane una miseria quando si guarda al trionfo delle istanze ecologiste, ad esempio, in Germania.
C’era poi la lista che riunisce +Europa e Italia in Comune (che pur aveva idee molto diverse da quelle della sinistra tradizionale e una differente collocazione a Bruxelles). La coalizione si è fermata al 3,09%, un punto percentuale in meno del quorum. Troppo poco per una realtà che poteva godere di due personalità come Emma Bonino e Federico Pizzarotti e di una discreta visibilità mediatica. Ma i Radicali confermano una volta di più che il proprio spazio elettorale in Italia rimane striminzito, mentre il sindaco di Parma deve rimandare l’appuntamento con il grande salto alla politica nazionale. Se ci sarà.
Nessuno di loro avrà una rappresentanza in parlamento. Dove invece porterà la sua piccola squadra Giorgia Meloni, che praticamente ha preso gli stessi voti delle tre formazioni assieme (il compagno Rizzo escluso). E sì che la leadership dell’ex ministra berlusconiana non ha alcun senso di essere nell’Italia di oggi, se non quello di ripetere con qualche ora di ritardo e meno credibilità – ma quel pizzico di Ventennio in più – le stesse parole d’ordine di Matteo Salvini. Eppure, nel Paese più a destra del Vecchio Mondo dopo l’Ungheria, lei cresce e non di poco, la sinistra affonda.
Il momento è pessimo per certe idee, si darà, e non solo a queste latitudini. Ed è vero, naturalmente. Inoltre il Pd ha leggermente ri-bilanciato il proprio baricentro a sinistra, grazie alla cesura rappresentata da Zingaretti rispetto agli anni renziani, al riavvicinamento con Bersani e compagnia e all’inserimento nelle liste di figure come Pisapia o Bartolo. E poi c’è sempre la logica del voto utile, che quando l’avversario di turno è il Capitano leghista si trasforma in una sirena parecchio attraente.
Ma non c’è nulla nella catastrofe della sinistra tricolore che non debba essere imputato alla sua classe dirigente (e no, noi non sapremmo di fare di meglio, in caso stiate davvero pensando all’obiezione più idiota che ci sia). La candidatura di Pietro Grasso – one more time, è tutto tranne che una questione personale – un anno fa è stata l’apoteosi del non averci capito nulla. Chi rappresentava l’ex procuratore antimafia? A chi parlava la sua designazione? Non sarebbe stato meglio, per dirne una, mandare avanti Laura Boldrini, che, per lo meno, in questi ultimi è stata “qualcosa per qualcuno”.
Non vale la pena prendere in rassegna tutti i progetti politici che sono stati varati negli ultimi anni, e poi abortiti all’indomani del voto. Ma da Ingroia a Tsipras sono stati davvero parecchi, tutti finiti nel fango. Il problema sta proprio lì: nel fatto che oltre alle elezioni non c’è nulla. Chiuse le urne, finito l’accrocchio. Ma ultimamente sono in molti a pensare che la sopravvivenza di un gruppo parlamentare non sia una condizione sufficiente per destinare il proprio voto da quelle parti, in mancanza di una visione del mondo da condividere (o di un sogno da vendere).
Perché dal G8 di Genova in poi proprio questa è venuta meno, con il paradosso che certe idee – parecchio lungimiranti, visto come poi sono andate le cose – sono state cannibalizzate dalla sponda politica opposta, trasformate in qualcosa di diverso e odioso e rese egemoniche. Fassina questa cosa l’ha capita, e ha provato la mossa Kansas City.
Che fare allora (direbbe Marco Rizzo)? E chi lo sa, noi siamo un giornale di musica (sì, è una battuta), ma ci proviamo lo stesso. Ripartire dalla piazza – fisica o virtuale che sia, meglio se tutte e due – e lì costruire assieme una direzione in cui andare. Dare un occhio in giro, alle buone pratiche che si costruiscono altrove (anche se alcune paiono già avere iniziato la discesa verso gli inferi, come dimostra il voto di Podemos in Spagna). Surfare l’onda ecologista che si è abbattuta sull’Europa, se possibile più per convinzione che per paraculismo. E saltare un turno, magari. Che se c’è una cosa che a sinistra sapevano fare bene, tra tanti tic autolesionisti, era l’analisi della sconfitta. Ora manco più quella.