Perché si è tornati a parlare di Iraq (anche se non dovremmo mai smettere di farlo) | Rolling Stone Italia
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Perché si è tornati a parlare di Iraq (anche se non dovremmo mai smettere di farlo)

Sono almeno 30 le vittime degli ultimi scontri che hanno riacceso i riflettori su Baghdad a partire dal 29 agosto. La “Zona verde” è stata teatro per quasi due giorni delle violenze scoppiate tra due fazioni, le forze di sicurezza irachene e i seguaci di Muqtada al-Sadr, religioso sciita e leader politico, che ha infiammato gli animi dei suoi annunciando un ritiro dagli affari governativi

Perché si è tornati a parlare di Iraq (anche se non dovremmo mai smettere di farlo)

Moqtada al-Sadr.Foto di SAFIN HAMED/AFP/GettyImages

Sono almeno 30 le vittime degli ultimi scontri che hanno riacceso i riflettori su Baghdad, la capitale dell’Iraq, a partire dal 29 agosto. La “Zona verde”, seppur considerata uno dei luoghi militarmente più protetti per via della presenza di edifici governativi e ambasciate straniere, è stata teatro per quasi due giorni delle violenze scoppiate tra due fazioni, che se le sono date a colpi di mortai e lanciarazzi: le forze di sicurezza irachene e i seguaci di Muqtada al-Sadr, religioso sciita e leader politico, che ha infiammato gli animi dei suoi annunciando un imminente ritiro dagli affari governativi.

È stato proprio quest’ultimo, con un discorso in diretta televisiva, a chiedere ai sostenitori di cessare l’assalto e liberare (e ripulire) il palazzo presidenziale, occupato per via della sua simbolicità: è spesso sede di incontro tra i capi di stato iracheni e quelli stranieri.

Anche se gli uomini di al Sadr hanno effettivamente eseguito i suoi ordini, liberando la Green Zone da accampamenti e insediamenti, non è detto che il peggio sia passato: la crisi potrebbe riesplodere da un momento all’altro, soprattutto perché ha radici nel passato.

Per capirci qualcosa dobbiamo fare alcuni passi indietro, partendo dagli avvenimenti politici più recenti: le elezioni parlamentari del 10 ottobre del 2021.

In quelle settimane a scontrarsi per salire al governo sono stati due gruppi che, seppur uniti dalla religione (sono entrambi sciiti, una componente dell’Islam) hanno una visione totalmente opposta sull’Iran – e più in generale su tutto ciò che va al di là dei confini iracheni. Un elemento divisivo che ha caratterizzato tutta la campagna elettorale e che ha visto affrontarsi quindi: da una parte movimenti ostili all’Iran e dall’altra partiti filo-iraniani.

Al primo “gruppo” apparteneva la coalizione di Sairoon, capeggiata dal Movimento Sadrista, guidato cioè da al-Sadr e i cui principi cardine sono nazionalismo e populismo. Lui e i suoi seguaci si sono fortemente opposti a qualsiasi interferenza politica o sociale esterna, sia che provenisse dagli Stati Uniti che dall’Iran. Dall’altra parte c’erano invece i partiti pro Iran, tra cui quello di Nouri al Maliki, ex primo ministro iracheno.

Da allora, nonostante sia passato quasi un anno, l’Iraq non ha ancora un governo: anche se le elezioni sono state vinte da al-Sadr, il leader politico non ha raggiunto una maggioranza tale che gli permettesse di creare un suo governo. Le trattative cominciate nei giorni successivi non hanno infatti dato i frutti sperati: gli schieramenti iracheni sono estremamente frammentati, e trovare un punto d’incontro sembra essere altamente improbabile. I tentativi ci sono comunque stati, e continuano tutt’ora, ma le strategie politiche messe in atto dalla coalizione vincente si sono principalmente concentrate sullo screditare l’avversario e mettergli pressione. Difficile trovare un accordo o scendere a compromessi, soprattutto se al-Sadr può contare sull’appoggio incondizionato di circa 7 milioni di fedeli (su 40 milioni di abitanti).

La sua è una figura controversa, che molti critici definiscono «capricciosa e imprevedibile». Di lui si è iniziato a sentir parlare nel 2003. Prima di intraprendere la carriera politica, il leader sciita apparteneva ad una milizia, l’Esercito del Mahdi, divenuta famosa per gli attacchi compiuti in quell’anno contro i militari statunitensi presenti in Iraq dopo la destituzione del regime di Saddam Hussein. Fu proprio in quel periodo che l’Iran si ritagliò un ruolo nella storia irachena, finanziando quelle milizie sciite (tra cui quella di al-Sadr) che avevano l’obiettivo di uccidere i soldati statunitensi. Ad oggi quel gruppo esiste ancora, ha partecipato agli scontri degli ultimi giorni ma ha mutato alcune caratteristiche: si chiama Brigate della Pace e non è più alleato dell’Iran.

Il momento che consolidò definitivamente il legame tra le due nazioni fu la guerra contro l’ISIS, durata dal 2014 al 2018. La lotta contro lo Stato Islamico (della componente sunnita) vide l’esercito nazionale allearsi con milizie sciite vicine all’Iran e con gli americani: la vittoria fu determinante e consegnò di fatto all’Iran grossi poteri decisionali sull’economia irachena. Una presenza che ancora oggi divide e alimenta gli scontri tra i gruppi filo e anti-iraniani e che, come abbiamo visto, può ancora generare guerriglia urbana.

Quanto ad al-Sadr, invece: con il tempo il leader ha cercato di darsi un volto nuovo, entrando in politica e candidandosi ad esempio alle elezioni del 2018 con la promessa di liberare l’Iraq dall’influenza di Stati Uniti e Iran. Un “programma elettorale” che ha mantenuto anche nelle ultime votazioni e che raccoglie un certo numero di consensi.

Secondo le parole dell’analista iracheno dell’International Crisis Group, Lahib Higel, riportate da Al-Jazeera, «al-Sadr vuole chiaramente mostrare ai suoi rivali che ha il controllo sulla sua folla ordinando loro di uscire e tornare in strada quando le cose si aggravano troppo». È l’atteggiamento che effettivamente il leader ha mantenuto negli ultimi mesi e che ha portato i suoi seguaci ad occupare più volte gli edifici parlamentari di Baghdad (come è accaduto, prima ancora del 29 agosto, il 27 e il 30 luglio). In quei giorni al-Sadr ha continuato ad esortare i suoi ad occupare la Green Zone, con l’obiettivo di ottenere lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni da parte del Supremo Consiglio Giudiziario.

Perché allora allontanarsi dalla scena politica, quando la sua influenza è in grado di smuovere masse intere? Ora che il quadro generale è più chiaro, possiamo fare un passo in più. Le “dimissioni” di al-Sadr sono avvenute dopo quelle del leader spirituale sciita Ayatollah Kadhim al-Haeri (mentore di Sadr), che prima di andare via ha suggerito ai fedeli di appoggiare l’Iran. Secondo alcuni commentatori, al-Sadr si sarebbe sentito offeso da queste parole e per questo avrebbe deciso di mollare tutto.

Sono cominciate da qui le proteste di cui scritto all’inizio, probabilmente fomentante dai membri delle Brigate della Pace: la milizia si è scontrata con le Forze di mobilitazione popolare e i gruppi paramilitari sciiti integrati nell’esercito iracheno e alleati con l’Iran.

Gli osservatori esterni sono piuttosto scettici riguardo alle definitive dimissioni del leader. La sua è una figura dominante all’interno del panorama politico iracheno: difficile credere che possa rinunciare a tutto questo potere per un capriccio.