Prima di Trump, quando nel mondo progressista o liberal si pronunciava il nome di un Donald repubblicano, causa di tutti i mali e del caos del mondo, si parlava di Donald Rumsfeld. Non era un presidente, ma il segretario alla difesa dell’amministrazione di George W. Bush e il principale architetto dell’invasione dell’Iraq nel 2003 – giustificata attraverso vari espedienti giuridici quali la presunta fabbricazione di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein e il concetto di “regime change”. Un concetto che avrebbe intaccato pesantemente l’immagine mondiale degli Stati Uniti dopo l’ondata di solidarietà successiva all’11 settembre 2001.
Donald Rumsfeld era questo, un prodotto o forse una causa della mutazione del Partito repubblicano successiva alla presidenza di Richard Nixon. E proprio il cinismo nixoniano e il realismo esasperato del suo braccio destro e segretario di Stato Henry Kissinger ad aver forgiato una generazione di Repubblicani come lui, già deputato al Congresso per l’Illinois negli anni ’60 e poi consulente a vario titolo proprio del campione del nuovo Partito repubblicano, quel Richard Nixon che da ex moderato era sempre più diventato un campione delle guerre culturali che tanto preoccupavano la classe media bianca che popolava i sobborghi delle varie città americane: contro la droga, ma anche contro le minoranze etniche, politiche e religiose.
Ma dietro questa coltre di conservatorismo, cosa c’era. Soprattutto nichilismo politico. E la parabola di Donald Rumsfeld lo mostra perfettamente. Dopo aver gestito il ritiro dal Vietnam come Segretario della Difesa, viene richiamato da George W. Bush, inizialmente per contrastare l’ascesa della Cina, nei confronti della quale l’amministrazione Bush si era spesa nei primissimi mesi. Dopo l’11 Settembre invece, ci fu un radicale cambio di scenario. Non solo la lotta al terrorismo islamista, che aveva colpito al cuore gli Stati Uniti, ma un radicale cambio dei regimi nemici – con la formulazione del famoso “Asse del Male” che riuniva Paesi molto lontani tra loro come Iran e Iraq e Corea del Nord. Regimi che andavano rovesciati e ricostruiti con un ambizioso nation building, usando esuli fidati come l’iracheno Ahmad Chalabi, definito il “George Washington di Baghdad”.
Non andò così. La guerra all’Iraq, pur raggiungendo l’obiettivo di rimuovere Saddam Hussein e l’influenza baathista dal Paese, non ha formato una democrazia solida e nemmeno una democrazia imperfetta, ma uno stato spaccato, in crisi, uscito da una lunga guerra civile e oggi pesantemente influenzato dal vicino iraniano. L’America scoprì così i suoi limiti, anche filosofici. Quella guerra sarebbe stata la pietra tombale sull’interventismo imperiale statunitense, ormai riconosciuto da un Partito repubblicano isolazionista e trumpizzato come deteriore e causa di un inutile spreco di risorse e di vite umane.
Come danno collaterale, ci fu anche la fine della sua carriera politica. Il pantano iracheno e gli attacchi contro i soldati americani che sembravano non aver mai fine. Dopo il disastroso midterm del 2006, che diede il controllo di entrambe le camere ai Democratici, Rumsfeld fu la pedina sacrificale dell’amministrazione di Bush. Eppure, non aveva colpe maggiori né dello stesso presidente né del suo potente vice. Ma di sicuro non aveva nemmeno l’accortezza di parlare poco e di essere simpatico alla stampa, che usava la sua pubblica arroganza come strumento per attaccare le politiche dell’intera amministrazione.
Forse Rumsfeld non era proprio come quello interpretato magistralmente da Steve Carell in Vice, che ride a crepapelle quando si parla di principi in cui credere. Ma il suo estremo cinismo e la sua arroganza e disprezzo per i diritti umani – mostrato largamente nella vicenda dei rapimenti come quello di Abu Omar, trasferito in Egitto dall’Italia nel 2004 per essere interrogato con torture – ha aperto le porte all’anima più nera dell’America, incarnata perfettamente da Donald Trump e dal suo mandato presidenziale.