Quanto ci manca Marco Pannella non solo e non tanto nell’istrionismo situazionista della trovata politica ad effetto. Quanto ci manca soprattutto nella capacità di unire, di parlare a tutti, di tagliare lo spettro politico in quattro-cinque tronconi, superarne i corpi intermedi – i partiti, le segreterie, le sezioni, i capibastone – e fare breccia direttamente nei cuori dell’elettorato, obbligandolo a confrontarsi nel merito, abbandonando le discipline particolari in favore del ragionamento in nome dell’intero corpus della società civile italiana. Chissà che cosa si sarebbe inventato per cercare di arginare l’imbarbarimento del discorso pubblico: di fronte a chi sogna con prospettive da John Rambo di pistole fumanti e mitra nascosti nel tinello, o di chi chiude i confini, anzi i porti, anzi le città e pure le campagne: non voli più una mosca! Tutti fermi, immobili, all’Ordine! e soprattutto in attesa che l’assegnino di Stato riporti con sé anche la dignità perduta a questo popolo di santi e navigatori diventati poveri diavoli e speronatori.
E quindi quanto ci manca Marco Pannella in ciascuna delle sue infinite declinazioni del politico: da quello in tv nel 1978 imbavagliato per il referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti e della legge sull’aborto; a quello che portò Enzo Tortora al Parlamento europeo nel 1984 a caccia alle streghe ancora aperta; a quello dello sciopero della fame e della sete perché fosse ripristinato il plenum della Corte Costituzionale nel 2002; a quello che fece esporre a Natale a San Pietro uno striscione con gli auguri in lingua Montagnard, minoranza cristiano-vietnamita decimata dal regime comunista; a quello scoperto alla pubblica gogna in una piazza di “Indignados” alle vongole che nel 2011 gli davano del “venduto” e lui niente, avanti col sorriso, tra ogni tipo di insulto provava comunque a dialogare. Anche la versione torrentizia e casinista degli ultimi anni, quando sbranava figli politici uno via l’altro che nemmeno Crono o monopolizzava microfoni alla Fidel, anche quella ci manca.
Oggi tornano alla mente in modo disordinato dei passaggi della cosa più bella che il leader radicale abbia mai scritto in vita sua, e cioè quello che Pasolini considerò essere il manifesto politico del radicalismo pannelliano: la prefazione che scrisse al volume Underground: a pugno chiuso! del fondatore di Re Nudo Andrea Valcarenghi, nel 1973.
Ne riporto alcuni passaggi disordinatamente:
«Io amo gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se “rivoluzionario”. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri ed alle ideologie. Credo sopra ad ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più “privati” mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti».
[…]
«Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero».
E infine una chiosa, che in realtà è posizionata piuttosto all’inizio nel testo pannelliano ma che a mio parere è quella che, seppure sia iscritta tra due parantesi, meglio definisce lo spirito che ha animato l’azione politica di Pannella, il vero elemento distintivo che lo separa anni luce da qualunque altro uomo politico l’Italia abbia visto all’opera dal dopoguerra a oggi, di gran lunga il più libero di tutti:
«Cerco di comprendere perché mi hai chiesto questo servizio (la stesura della prefazione, ndr), per meglio adempierlo, umilmente e se possibile efficacemente, da compagno che accetta e vuole accrescere i labili o inadeguati motivi comuni di fiducia e di solidarietà. Non ci riesco. Arrivo a sospettarti dei calcoli più imbecilli e frustri. Smadonno. Penso ad Umberto Eco, lettore-prefatore della nostra epoca scritta; ma no, piuttosto a Franco Fortini, Luigi Pintor, Adriano Sofri, cui dovevi rivolgerti, che dovevi convincere e che avrebbero saputo cogliere l’occasione per dirci un po’ meglio di quanto non sappiamo quel che siete, quel che siamo, e per rispondere nello stesso tempo alle loro diverse e così significative esigenze di moralità politica. Io queste cose non le so fare. Con all’orizzonte i miei cinquanta anni ed un quarto pieno di secolo dietro le spalle, di impegno, di lotte (e di felicità: qui vi fotto tutti!)».