Questo documentario prova a spiegarci, finalmente, chi ha ucciso Andy Rocchelli | Rolling Stone Italia
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Questo documentario prova a spiegarci, finalmente, chi ha ucciso Andy Rocchelli

Venerdì 11 febbraio andrà in onda la seconda parte dell'inchiesta condotta da Giuseppe Borello e Andrea Sceresini, con la collaborazione di Tatsiana Khamliuk e il coordinamento di Valerio Cataldi, dedicata al fotoreporter morto in Ucraina nel 2014. Eccone un'anteprima

24 maggio 2014. Andy Rocchelli e Andrej Mironov, giornalisti freelance, sono massacrati a colpi di mortaio alla periferia della città di Sloviansk, in Ucraina orientale, mentre documentavano le prime fasi del sanguinoso conflitto tra i separatisti filorussi e l’esercito di Kiev.

30 giugno 2017. Un militare della guardia nazionale ucraina, Vitaly Markiv, viene arrestato a Bologna dal Ros dei Carabinieri. Nel 2014 la sua unità presidiava la collina di Karachun, di fronte alla piana dove sono stati uccisi Andy e Andrej. Sarebbe stato lui, secondo i magistrati, ad avvistare i reporter e indirizzare il tiro delle artiglierie.

Markiv sarà assolto definitivamente nel 2021, dopo quattro anni di processi, ma quelle sentenze – pur scagionando l’imputato – stabiliranno una volta per tutte che ad aprire il fuoco contro i giornalisti furono le unità ucraine attestate a Karachun: la Guardia Nazionale di Markiv e la 95a Brigata Aviotrasportata – l’unico reparto che quel giorno aveva a disposizione i mortai.

La nostra inchiesta è partita da qui, dall’arma del delitto e dalla 95a Brigata – un reparto d’élite i cui membri si sono sempre tenuti prudentemente lontani dalle aule giudiziarie. Per mesi abbiamo cercato di rintracciare i circa cento membri della Brigata che durante il mese di maggio presidiavano la collina di Karachun. Poi, spulciando gli elenchi dei disertori pubblicati dalle autorità di Kiev, siamo entrati in contatto con un ex militare che oggi vive all’estero. Il quale, dopo otto anni di silenzio, ha accettato di raccontarci cosa accadde quel giorno ai piedi della montagna. «La mia posizione era esattamente di fronte al luogo dove sono stati uccisi i due giornalisti – ci ha detto -. Quel giorno fu avvistata una macchina dalla quale scesero alcuni civili. Non sapevo che fossero dei reporter, ma ricordo che il nostro comandante prese il binocolo e disse: Quelle persone non devono stare lì». Dopodiché diede l’ordine di sparare. I miei commilitoni aprirono il fuoco con un mortaio automatico, il Vasilek. Spararono come si fa in guerra, per uccidere. Non sono stato io ad avvistare la macchina, ma ricordo benissimo la scena. Fu un bombardamento intenso e durò diversi minuti. Non c’era stata nessuna provocazione».

Il comandante di cui parla il super-testimone è Mikhailo Zabrodskyi, 49 anni, militare di carriera, generale a due stelle, «Eroe dell’Ucraina», attualmente deputato presso il parlamento di Kiev. Nel 2014 Zabrodskyi guidava la 95a Brigata Aviotrasportata – lo stesso reparto che, secondo la magistratura italiana, il 24 maggio 2014 aprì il fuoco contro i giornalisti. Ma c’è di più: oggi, come riportato dal sito ufficiale della “Rada” di Kiev, Zabrodskyi è membro del Gruppo per le relazioni interparlamentari italiano-ucraine. Un dettaglio che suona grottescamente beffardo, anche solo alla luce delle sentenze.

Fino ad ora nessuno aveva mai menzionato il “Vasilek” in relazione al caso-Rocchelli. Eppure la presenza a Karachun di questo mortaio automatico di fabbricazione sovietica ci è stata confermata, oltre che da alcuni video girati all’epoca, anche da diversi altri ex militari della 95a Brigata: «Quell’arma poteva essere azionata solo su ordine del comandante – ci hanno raccontato i reduci del reparto -. Ed era col “Vasilek” che facevamo abitualmente fuoco in direzione del luogo dove sono morti i giornalisti».

Gli sviluppi dell’inchiesta ci hanno condotto in Ucraina, dove abbiamo cercato di rintracciare i vecchi commilitoni del nostro disertore. Convincerli a incontrarci non è stato facile, perché l’ombra di questi fatti sembra ancora gravare minacciosa sulle esistenze delle decine di soldati che nel 2014 presidiarono la collina di Karachun. Uno di essi ce lo ha detto chiaramente: «Sono cose di cui non posso parlare».

Perché tanto silenzio? Per quale ragione ci sono voluti otto anni prima che qualcuno trovasse il coraggio di raccontare cosa accadde quel giorno? Abbiamo provato a interpellare il tribunale di Sloviansk, che nel 2016 bollò come “illegali” le prime, evanescenti indagini condotte sul campo dagli inquirenti ucraini. «La verità è che nel 2014 era impensabile ammettere che il nostro esercito avesse ucciso dei civili – ci ha confidato una fonte interna al locale palazzo di giustizia -. Era una questione politica, perciò nessuno si è mai preso la briga di investigare sul serio da queste parti».

La nostra indagine si è conclusa a Kiev, negli uffici della Rada, dove – spacciandoci per documentaristi interessati a generiche storie di guerra – siamo riusciti a ottenere un’intervista con l’uomo-chiave di questa vicenda – il deputato Mikhailo Zabrodskyi. «Non posso contestare le sentenze dei vostri tribunali, né controbattere ai testimoni che hanno parlato con voi, anche se non capisco da dove siano sbucati fuori – ci ha detto -. Certo, è possibile che quei colpi siano partiti da Karachun, ma potrebbero essere stati sparati anche da qualsiasi altra zona di Sloviansk». Il colloquio, laconico e sibillino, si è svolto sotto lo sguardo attonito – e a tratti terrorizzato – degli addetti stampa parlamentari. Uno di essi, a microfoni spenti, ha sbottato con la nostra interprete: «Ho avuto più volte la tentazione di interrompere l’intervista. E’ stata una conversazione molto spiacevole». Ma le cose spiacevoli, in tutta questa storia, sono decisamente altre.

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