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Quindi c’è un legame tra l’inquinamento e il coronavirus?

Alcuni scienziati sostengono ci sia una correlazione tra esposizione all'inquinamento e vulnerabilità alla malattia, ma c'è bisogno di ulteriori ricerche

Victor J. Blue/Getty Images

Che cosa hanno in comune fra loro le zone più colpite dal coronavirus, da Wuhan alla Pianura Padana, da Parigi a Madrid? Sono tutte molto inquinate. Ma per capire se davvero esistesse una correlazione fra la contaminazione dell’aria e la diffusione e la mortalità del COVID-19, l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Lecce e Roma ha analizzato i dati e le conoscenze scientifiche finora a disposizione, e ha pubblicato il suo lavoro sulla rivista scientifica Atmosphere.

Gli scienziati si sono chiesti se l’esposizione pregressa all’inquinamento atmosferico potesse influenzare la vulnerabilità al COVID-19, e hanno riscontrato che, in effetti, c’è una correlazione positiva: “È plausibile che la già avvenuta esposizione di lungo periodo all’inquinamento atmosferico possa aumentare la vulnerabilità degli esposti al COVID -19 a contrarre, se contagiati, forme più importanti con prognosi gravi”, hanno spiegato Daniele Contini e Francesca Costabile del Cnr-Isac. “Tuttavia, deve ancora essere stimato il peso dell’inquinamento rispetto ad altri fattori concomitanti e confondenti”.

Cerchiamo di spiegarlo più semplicemente. I diversi focolai di COVID-19 diffusi nel mondo mostrano grandi differenze in termini di tassi epidemici e di mortalità. Tutte queste difformità portano a chiedersi quanto possano influire i fattori atmosferici, da quelli naturali come la temperatura e l’umidità a quelli antropici come l’inquinamento, sulla trasmissibilità e sulle differenze di mortalità della malattia.

Ad esempio, secondo un pre-print dell’Università di Milano, ci sarebbe anche una correlazione tra la diffusione del virus e la temperatura: l’epidemia sarebbe cresciuta più velocemente nelle zone con le temperature medie intorno ai 5 gradi centigradi. Anche se gli studiosi hanno individuato una correlazione tra l’esposizione all’inquinamento e la vulnerabilità al COVID-19, per valutare l’influenza dei diversi fattori che possono incidere sono necessari ulteriori approfondimenti, con un approccio multidisciplinare.

Il team di ricerca del Cnr-Isac ha anche riscontrato che gli effetti tossicologici del particolato atmosferico dipendono molto dalle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche. Quindi non si può ritenere che valori elevati delle polveri sottili Pm10 e Pm2,5, senza altre caratterizzazioni, possano spiegare l’aumento della vulnerabilità al COVID-19 o le differenze di mortalità.

“I dati recenti mostrano focolai in aree caratterizzate da livelli di inquinamento molto diversi tra loro”, concludono gli studiosi, “ma i dati sui contagi sono viziati da incertezza, legata all’attendibilità, precisione e completezza conteggi e alla modalità di esecuzione dei tamponi”. I fattori che incidono sulla diffusione dell’epidemia sono tanti: non basterà, quindi, vivere in una zona dall’aria incontaminata per sentirsi al riparo dal coronavirus.

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