Alla fine cos’è, questione di tempi, di modi? Ieri la Ministra per la Famiglia Eugenia Roccella è stata duramente contestata da una cinquantina di attivisti di collettivi studenteschi come Collettivo Transfemminista, Assemblea Aracne e Collettivo Artemis, a Roma, durante un intervento agli Stati Generali della Natalità. L’evento si qualifica dal nome: è un convegno Dio, Patria & Famiglia che – nonostante non sia legato ai movimenti pro vita – rilancia le posizioni ostili all’aborto già care al governo Meloni, che infatti vuole usare il Pnrr per mettere le associazioni pro-life nei consultori (da sempre noto feudo di voti per la destra italiana). Ecco, a Roccella è stato rinfacciato questo, oltre al fatto di veicolare un’immagine della donna offensiva e fuori dal tempo, che non dispone del proprio corpo e che – parole sue – non sarebbe realizzata senza figli. Parapiglia, contro-risposta degli altri studenti e solita guerra di religione.
La verità è che è il dilemma più vecchio del mondo: da una parte gli attivisti rivendicano il diritto «al dissenso, che è fondamentale in democrazia»; dall’altra Roccella, che alla fine non ha avuto modo di esprimersi, parla di «censura», prendendosi solidarietà non tanto da Meloni – cioè, quella era ovvia – ma anche da Mattarella, tutt’altro che democristiano in queste situazioni, come hanno dimostrato le parole di biasimo per le manganellate delle forze dell’ordine sugli studenti. Nel senso: non si fa problemi a difendere gli studenti e bacchettare pratiche che per una certa parte d’Italia sono invece ordinarie. Più timido l’appoggio a Roccella da sinistra, probabilmente per motivi di calcolo politico e dente avvelenato nei confronti di Fratelli d’Italia che altro, ma tant’è.
Roccella, tra l’altro, è figlia di uno dei padri fondatori dei Radicali (figurarsi, quindi, il paradosso dell’aborto), e nel 2023 aveva subìto delle contestazioni simili al Salone del Libro, prendendosela con l’allora direttore Nicola Lagioia, colpevole di non averla «difesa». Le attiviste in questione, poi, erano state denunciate da varie associazioni di destra, ma due settimane fa la procura di Torino ha fatto cadere le accuse: «Non c’è stata alcuna forma di violenza, né implicita e né esplicita».
Ma insomma, chi ha ragione? C’è un confine tra dissenso e censura o si pestano i piedi, ed è un casino per tutti? Dov’è che finisce l’una e comincia l’altra? È tutta, di nuovo, questione di tempi e di modi? Bastava far parlare Roccella e poi risponderle per mandare il mondo in pace? Servono manganello e olio di ricino per far scattare l’ipotesi di violenza? Ma non sono state le proteste senza manuale di istruzioni ad aver mandato avanti il mondo? È il paradosso che, in proporzione, torna ogni Festa della Liberazione: al di là dell’apologia di fascismo, bisogna tollerale i nostalgici del Ventennio anche se, fosse per loro, qualora tornassero al potere, cancellerebbero le conquiste di democrazia dal 1945 in poi? Traslato, come si reagisce alle parole e alla politica di Roccella, se Roccella stessa nell’esprimere legittimamente i suoi diritti prevede di sopprimere i diritti di altre persone? Il fatto che una donna possa sentirsi più o meno realizzata con una famiglia è, alla fine, un’opinione, per quanto tossica; la guerra all’aborto nei consultori una già concreta realtà dei fatti. Così come lo è il fatto che il secondo partito di governo abbia messo come capolista per le Europee, ovunque, uno come Vannacci. Che si fa?
Ora: una risposta diversa da quella, sterile, di ricorrere al giudice ogni volta, com’è stato al Salone e come forse sarà qui, per capire se c’è stata o meno «violenza» da parte di chi ha contestato, al momento pare difficile da individuare. Pare difficile, ecco, mettere a sistema la questione, avere uno sguardo generale. Di certo fa sorridere sentire la destra parlare di censura, come se il caso Scurati non si fosse consumato giusto un mese da; come fa tenerezza vedere i pro vita rivendicare per sé un ruolo da chierichetti – cosa che, nei toni, non sono mai stati – o il Potere, cioè Roccella, fare la vittima. Ma a parte un’oggettiva guerra ai diritti civili e certi sofismi che trovano spazio giusto tra chi telefona alla Zanzara, convinti che il femminismo in linea di massima non voglia immaginare una società più giusta ma togliere qualcosa agli uomini, è chiaro che in generale sia un periodo pessimo per fare un dibattito costruttivo, da tutte le parti. E non si scopre certo agli Stati Generali della Natalità.
Il fatto è che i social, tra bolle e algoritmi, ci danno ragione a prescindere, ci mettono davanti persone con cui siamo già d’accordo e il resto – e pure questo si sa già. Così finisce che non si sa più mettersi all’ascolto con l’altro, e i toni si esasperano a prescindere, da un lato e dall’altro. Da lì, mettendoci in mezzo anche la crisi dell’informazione e grandi convinzioni di avere per sé tutta la verità e nient’altro che la verità, si perde il senso per la contestazione, e da parte di chi la subisce si confonde subito con la censura. Roccella e i suoi d’altronde lo sanno bene, l’hanno appena vista da vicino. E sì, stiamo parlando del caso Scurati.