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Santoro e il ‘fronte pacifista’ italiano che un po’ condanna l’aggressore, un po’ lo compatisce

Più che una manifestazione per la pace, il pigiama party di Santoro & Co al Teatro Ghione ha avuto tutto l'aspetto di una crociata contro un nuovo nemico immaginario: la 'censura del mainstream'

Ieri sera il Teatro Ghione di Roma ha ospitato il tanto atteso pigiama party del sedicente “fronte pacifista” italiano (in cui, però, in maniera un pelino grottesca, coesiste senza troppi problemi un insieme caotico di personalità ascrivibili all’estrema destra cripto-putiniana e al sottobosco italiano della “contro-informazione”, per intenderci quello che ritiene che sia in atto una grande “sostituzione etnica” e che il covid sia una farsa montata ad arte dai poteri forti).

La manifestazione, intitolata “Pace proibita”, è stata animata dalla personalità carismatica di un Michele Santoro in forma smagliante, che da qualche tempo – almeno in quanto a vis polemica – sembra aver riacquisito uno stato di forma invidiabile, ricalcando gli antichi fasti di Anno Zero, dell’antiberlusconismo e dei girotondi; la lucidità, però, beh, a onor del vero non sembra quella di un tempo, se è vero che l’ei fu padrone di casa di Servizio Pubblico non ha mai celato una fiera appartenenza alla sinistra e, oggi, accetta senza troppi problemi di concedere a ByoBlu, la creatura mediatica dell’ex capo della comunicazione M5S in Senato Claudio Messora, famosa per propagandare una linea editoriale non esattamente progressista, per usare un eufemismo, di trasmettere in diretta l’evento. Il motivo? Combattere la censura. Poco importa se si parla di un’emittente famosa per diffondere disinformazione su larga scala: pur di perorare la nostra “causa” e allargare il campo apriamo le porte a chiunque, purché «liberi»; bene così.

Santoro, però, era in ottima compagnia: oltre al “quartetto del dubbio preventivo” (Agamben, Cacciari, Freccero e Mattei, ormai possiamo declamarli a memoria come la linea difensiva della Nazionale ai mondiali dell’82) erano presenti al Ghione la professoressa di Filosofia Donatella Di Cesare, ormai ospite fissa, amici di vecchia data del tribuno, come Vauro Senesi e Sabina Guzzanti, pezzi di showbiz italiano più o meno noti per il loro attivismo civico, come Fiorella Mannoia ed Elio Germano, addirittura Cecilia Sala e il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio.

La causa comune che questa coalizione di esimi intellettuali intende sostenere è la netta opposizione al sostegno militare all’Ucraina – nell’ottica, appunto, di lavorare per la pace e stimolare una riflessione critica sulle responsabilità di Occidente e Nato. Il problema è che l’evento è nato per fronteggiare un nemico che, come dire, non esiste, ossia la “censura dei media mainstream”. Sui motivi per cui non sia in atto alcun disegno atto a silenziare le voci contrarie all’agenda occidentale siamo tornati più volte nel corso delle scorse settimane. Per chi avesse bisogno di riavvolgere il nastro: la risposta è no, non esiste nessun bavaglio di Stato, le voci cosiddette “pacifiste” (che spesso fanno il giro e diventano filo-putiniane, direttamente o indirettamente, finendo per giustificare o subdolamente “comprendere” i motivi che hanno scatenato l’aggressione di uno Stato sovrano) trovano spazio ovunque e in prima serata, dalla Rai a La7, dalle prime pagine di importanti quotidiani nazionali a spazi più “informali”, come dirette su Twitch e video postati su canali Telegram da migliaia di iscritti. Il caso più paradigmatico è quello di Orsini e del suo arco di trasformazione da perfetto sconosciuto a rockstar di un certo tipo di pensiero: non esattamente un intellettuale scomodo ghettizzato da un non meglio precisato establishment.

L’aspetto più triste, però, è assistere quella porzione di pacifisti (piccola, viene da pensare) assolutamente in buonafede rimanere attonita di fronte alle palesi difficoltà che alcuni relatori hanno riscontrato nel biasimare esplicitamente l’aggressione della Russia, girando continuamente attorno alla questione senza mantenere fede a quel «Noi condanniamo senza se e senza ma l’invasione dell’Ucraina. Putin dovrà risponderne al suo popolo e alla Storia» pronunciato nell’introduzione alla presentazione della serata a teatro. Peccato che, nelle tre e passa ore di trasmissione, le citazioni del nome Vladimir Putin si possano contare sulle dita di una mano, quasi a voler far sfumare l’ovvia distinzione che separa aggredito e aggressore (che, per un certo filone, sembra essere un dettaglio trascurabile e superficiale). Zelensky ha avuto qualche attenzione in più, anche perché protagonista privilegiato di uno dei filoni maggiormente cavalcati nelle ultime settimane, quello del «e però il neo-nazismo in Ucraina» e dell’ormai celebre “genocidio nascosto” del Donbass iniziato nel 2014 (gioverebbe ricordare – ma anche in questo caso parliamo di sottigliezze dimenticabili, ovviamente – che nel Donbass non sarebbe avvenuta nessuna guerra, se non l’avesse portata con le armi e con i suoi mercenari la Russia. Possiamo ripetere qui il giudizio di Luke Harding: «Senza la Russia, nel 2014 non ci sarebbe stata nessuna guerra. Indubbiamente ci sarebbero state le tensioni tra il governo centrale di Kiev e le sue regioni orientali a maggioranza russa: una disputa politica su autonomia, devoluzione del potere, molteplici fallimenti dello stato ucraino e status della lingua russa, ma l’Ucraina non sarebbe caduta nel caos»).

Insomma: vedremo che evoluzione avrà il flirt tra Santoro e quel confuso “fronte pacifista italiano” che un po’ (timidamente, a dirla tutta) condanna l’aggressore, un po’ lo compatisce.

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