Dilsoz è un cittadino italiano che ha combattuto contro l’ISIS in Medio Oriente. Sul fronte di Afrin era assieme a Lorenzo “Orso Tekosher” Orsetti, ucciso dai militanti dello Stato Islamico il 18 marzo. Come Dilsoz, che preferisce non svelare la sua identità, altri attivisti sono stati nel Nord della Siria a combattere Daesh negli ultimi anni. Una volta tornati in Italia rischiano di essere sottoposti al regime di sorveglianza speciale, una richiesta basata sull’ipotesi della loro pericolosità sociale, visto che avrebbero imparato l’uso delle armi. Proprio loro, gli unici insieme a Dilsoz, Lorenzo e pochi altri, che hanno davvero combattuto il terrore del Califfato.
Chi sei? cosa fai in Italia?
In Italia io sono uno dei tanti, faccio l’operaio in nero. Sono sempre stato un militante con ideali libertari e qualche tempo fa, come altri, ho pensato di dare il mio contributo alla causa del Rojava: il mio sangue non è diverso da quello arabo o di altre persone che stanno a migliaia di chilometri da me, così ho deciso di entrare in una formazione militare e sostenere la causa.
Tu combattevi con le Forze Democratiche Siriane – YPG in difesa del Rojava?
Sono entrato in una forza militare come YPG che combatte contro lo Stato Islamico. Mi sono battuto per il Rojava, un luogo dove c’è una nuova forma di organizzazione sociale – e non statale – della democrazia. YPG rappresenta la democrazia diretta, l’uguaglianza e l’emancipazione delle donne – quindi anche della società -: il patriarcato è l’origine di tutte le forme di disuguaglianza e di oppressione. Lo Stato Islamico, invece, è la negazione di qualsiasi cosa. Mi è sembrato giusto prendere parte a questa battaglia.
Che sensazione si prova a imbracciare le armi?
Imbracciare le armi è la cosa più semplice del mondo, è il motivo per cui prendi in mano il fucile che fa la differenza. Le guerre le fanno i poveracci, se la guerra fosse difficile non ce ne sarebbero così tante continuamente.
Dove hai combattuto?
Ho combattuto su diversi fronti, dall’avvicinamento a Raqqa all’operazione di Deir ez-Zor. Ma soprattutto ho lottato per la difesa di Afrin: abbiamo combattuto contro le milizie jihadiste, un’accozzaglia di bande armate fino ai denti finanziate dal governo di Erdogan. Lì ero con Lorenzo.
Vuoi dare un messaggio a quei politici che in Italia omaggiano Lorenzo e poi inneggiano a un mondo fatto di muri?
È ridicolo che parlino di Orso. Gli unici che in Italia sono andati a combattere in Siria contro lo Stato Islamico sono gli stessi che quotidianamente vengono chiamati “quelli dei centri sociali”, non ci sono andati quelli della Lega Nord che fanno le crociate contro l’Islam, che vogliono chiudere i porti, che vogliono rispedire in Africa i migranti. Tutti loro dovrebbero smetterla di parlare di Lorenzo, perché lui combatteva per una società che è l’esatto opposto di quella che vuole costruire la Lega Nord: noi vogliamo una società multietnica e inclusiva.
Com’era Lorenzo Orsetti?
Era semplice, faceva il cameriere, il cuoco. Quando eravamo laggiù condivideva i suoi giochi sul laptop, condivideva qualsiasi cosa, era una persona vera. Non era interessato alla gloria, al successo, ai soldi: era solo interessato a incidere sul mondo nella maniera migliore.
Ci racconti un episodio condiviso con Lorenzo?
Lungo la via che ci portava ad Afrin, mentre andavamo al fronte, ci hanno diviso. Non c’erano molte possibilità di uscirne vivi, anche se alla fine ce l’abbiamo fatta entrambi. Lui scherzava sempre sulla morte, non potrò mai dimenticarlo. Ci siamo lasciati così: mentre ero sul furgone che mi portava alla linea del fronte, pensavo a sei mesi prima, quando lo conobbi in Iraq. Per me era la seconda volta in Rojava mentre per Lorenzo la prima, così mi ero sentito in dovere di fargli un discorsetto tipo “lo sai che da qui non torniamo?”. Lui mi guardava con la sigaretta in bocca a penzoloni come Jigen, il socio di Lupin, sorridendo ironicamente senza rispondere, in quel momento ho capito che Lorenzo era nato per combattere. Lorenzo era un amico, uno che avrebbe fatto di tutto per la causa.