Metti un sabato mattina di inizio autunno a Milano, come canta Tommaso Paradiso: “sarà un altro giorno passato nel letto, con la bottiglia dell’acqua a fianco e il telefono stretto”. Già, e subito dopo aver scrollato sui social le immagini, così emozionanti da sembrare politiche, delle affollate proiezioni – quelle ufficiali e quelle illegali, al multisala o su un pratone all’aperto – del film su Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, mi sono messo a messaggiare con i due/tre amici sopravvissuti alle incombenze dell’adultità per organizzare la visione della partita dell’Inter in Champions League, comunque preparato a una serie di “no, non posso” e alla conseguente fruizione solitaria – tra Fantozzi e un saggio di Bifo – dello streaming calcistico.
Seguono nel pomeriggio – in ordine sparso – serie di Netflix, playlist di Spotify, sigarette ordinate su Glovo e pollo e patate su Deliveroo, come in una sorta di degenza postoperatoria di lusso, l’offerta che supera la domanda, lasciandomi lì, immobile. E non è il semplice hangover dopo un venerdì in bibita, c’è qualcosa d’altro: sono sprofondato nella mia comfort zone, e non sono riuscito più a uscirne. Come mi ha raccontato Thom Yorke, nell’intervista che potete leggere nel numero di Rolling Stone in edicola, «se ti senti troppo a tuo agio, allora sei nel posto sbagliato».
È bastato un film giusto al momento giusto per farci accorgere di nuovo che la condivisione e la partecipazione non appartengono alla retorica del marketing
Poi, martedì, per un insieme di casi – guasti all’antenna, gastriti, il gatto – ci troviamo quattro amici al bar, circondati da un’altra cinquantina di tifosi con la birra in mano. L’Inter gioca da Inter, come il weekend di cui sopra soffre e non emoziona. Poi sul finale Icardi pareggia con un gol incredibile e Vecino segna la rete della vittoria. L’adrenalina ruba il posto allo sconforto e invade l’aria, ci abbracciamo come scemi, urliamo cori a vanvera. Per contro, il massimo dell’esultanza della visione casalinga è un salto in cucina a riempire il bicchiere.
«Piangere, arrabbiarsi, scoprire quel che ancora non si sapeva di questa storia (quella di Stefano Cucchi), ma farlo insieme, guardandosi negli occhi quando si accendono le luci». Così Alessandro Borghi commenta il felice stupore «per il fatto che ci siano 2000 persone che hanno voglia di riunirsi per vedere il film». Ora non voglio mettere sullo stesso piano Inter–Tottenham e Sulla mia pelle (o un affollatissimo concerto, una manifestazione politica) ma i “bagni di folla” sembrano una risposta naturale al consumo individuale che ci è stato o erto in questi ultimi anni.
'Sulla mia pelle', a La Sapienza proiezione "clandestina". In duemila "per condividere una storia che ha ferito tutti" [news aggiornata alle 13:07] https://t.co/gPsInMLLvD
— la Repubblica (@repubblica) 15 settembre 2018
Il morbido isolazionismo casalingo non ci ha reso più autosufficienti, ma quasi messo in cattività, alimentando una rabbia repressa dietro lo schermo di un tablet, o dietro un paio di cuffie. È bastato un film giusto – al momento giusto –, come quello diretto da Alessio Cremonini, per farci accorgere di nuovo che la condivisione e la partecipazione non appartengono alla retorica del marketing (“Vorrei cantare insieme a voi/in magica armonia/ auguri Coca Cola e poi…”, recitava un celebre spot anni Ottanta), ma solo alla base della pop culture e in generale del consumo culturale.
Per arrivare, infine, alla politica, che di partecipazione si nutre, e che negli ultimi anni si è vista contagiare da un virus, quello del populismo, che ha molto a che fare con la solitudine domestica e con la contemporanea e ultra cool autocrazia fondata su delivery e streaming. Quindi quando organizziamo la prossima proiezione collettiva – legale o illegale, decidete voi – di un film? O di una partita? Le occasioni non mancano.