Sappiamo da tempo che dietro uno scemo c’è sempre un villaggio, ma la verità è che forse, da qualche tempo a questa parte, non sappiamo più distinguere gli scemi dai villaggi. Claudio Lotito, ad ogni modo, è una persona intelligente. Talmente tanto da fregarsene di passare per scemo. Nel trionfo della destra alle ultime politiche, la sua storia – ovviamente vittoriosa – è scivolata via un po’ troppo in fretta, oggetto al massimo del solito racconto sui presidenti delle squadre di calcio che cercano, e talvolta trovano, fortuna in Parlamento.
Il caso Lotito, però, è diverso. E il dettaglio non è solo biografico: la sua candidatura in Molise e la stupefacente campagna elettorale che si è dimostrato in grado di fare racchiudono in sé un insegnamento e un avvertimento. L’insegnamento: il Molise esiste eccome. L’avvertimento: non si scherza con Claudio Lotito.
Le cronache molisane sulle tracce del presidente della Lazio sono state uno spasso: serate in balera, cene popolari, incontri casa per casa come ai bei vecchi tempi, riunioni con preti e notabili vari, quantità spropositate di acqua bevuta (deve essere una sua fissa: quando andò a pranzo con Agnelli portò via la bottiglia mezza piena dal ristorante, un’altra volta piantò un casino incredibile all’aeroporto perché voleva imbarcarsi con quattro litri di minerale). E leggende, va da sé: dicono che Lotito sia in grado di andare a dormire alle 4 e poi di cominciare a lavorare alle 7 fresco come una rosa. Beato lui. Del resto Lotito è un uomo che nella sua vita non s’è mai dato per vinto e, in un certo senso, è naturale che abbia una scorza e una tempra diverse dal normale.
Il corpaccione da Vittorio Sbardella – forse non a caso anche lui legato alla Lazio – perennemente avvolto nel completo di ordinanza (giacca mai allacciata), con telefonini in ogni tasca e forse pure una pistola infilata da qualche parte, appare come una metafora stessa del potere romano: grande, grosso e apparentemente poco stabile. E capace di schiacciare qualsiasi cosa. Anzi di fagocitarla. Cioè di farla sparire e di prenderne il posto.
Quando nel 2004 Lotito ripescò la Lazio dal pantano della Cirio di Cragnotti, il capitale versato, sia pure in minima parte, era condiviso con l’onorevole di Forza Italia Mario Masini. Non deve stupire, dunque, che quando al presidente Claudio venne in mente di buttarsi in politica, la bossa a cui andò a bussare era quella del Pdl berlusconiano. Risposero picche: «Temono che il mio nome possa allontanare i tifosi romanisti dal partito». Lo stesso partito che, per la cronaca, a quelle elezioni candidò l’ex presidente della Roma Giuseppe Ciarrapico. Lotito, ad ogni buon conto, sarebbe stato pronto e, in un’intervista al Corriere, regalò una celebre battuta su Veltroni: «Doveva andare in Africa e invece ha portato l’Africa a Roma».
L’appuntamento con la politica, comunque, era solo rimandato. Nel 2018, ormai affermato presidente di una Lazio che nel frattempo aveva anche collezionato qualche trofeo, Lotito venne candidato nel listino del Senato al collegio Benevento-Caserta-Avellino. Non eletto, la gran mole di ricorsi non ha portato a nulla se non alla ricandidatura nel 2022 in Molise. La volta buona: vittoria schiacciante e annunciatissima al collegio uninominale e ascesa, finalmente, a Palazzo Madama.
E pensare che la campagna elettorale era partita malissimo: «Conosco bene l’Abruzzo, mio nonno era di Amatrice», ebbe a dire Lotito commentando la candidatura. Quando gli fecero presente che Amatrice non si trova in Abruzzo, lui si difese dicendo che ai tempi di suo nonno, in effetti, ne faceva parte. Vero, ma lui comunque era stato spedito in Molise. La diffidenza dei primi tempi – la dirigenza locale della destra non apprezzò il candidato imposto dall’alto – Lotito l’ha vinta mettendo le tende a Campobasso. Non si è schiodato per settimane: chilometri e chilometri in lungo e in largo per una regione piccolissima e che però appare gigante per quantità e (scarsa) qualità delle stradine che la attraversano. E va bene che nessun sondaggista abbia mai messo in discussione la vittoria della destra da quelle parti – chiunque fosse stato il candidato – ma Lotito la simpatia popolare se l’è conquistata sul serio.
A elezione avvenuta, infatti, sui giornali locali quasi tutti gli intervistati si dichiarano assolutamente fiduciosi del fatto che il loro uomo non si dimenticherà del Molise quando sarà dentro il Senato. C’è della sincerità, o quantomeno della speranza, poi si vedrà.
Benché di motivi per dubitare ce ne sarebbero in abbondanza, a Lotito va riconosciuta anche la qualità di essere un uomo di parola. Se l’ha promesso, qualcosa farà. Ne sanno qualcosa i tifosi della Lazio: molti, soprattutto gli ultras, lo odiano e invocano spesso la liberazione della squadra dalla sua proprietà, ma il resto dello stadio, malgrado la diffidenza diffusa, non riesce a spiegare per quale motivo dovrebbe avercela con lui.
La gestione oculatissima del bilancio gli hanno fatto guadagnare la fama del taccagno, ma le cronache sportive di crack ne raccontano sempre sin troppi e quindi avercene di gente che riesce a non sfondare i conti e comunque a vincere qualcosa. Il suo modello dichiarato è Alessandro Manzoni: «L’utile per scopo, il vero per soggetto, l’interessante per mezzo». Senza disdegnare Pascoli: «In questo periodo mi sento un po’ come il suo fanciullino». E poi, sì, anche Vittorio Alfieri: «Volli, sempre volli, fortissimamente volli». A queste parole noi ridevamo senza capire, fortissimamente polli.
«Se fosse stato presidente di Alitalia invece che della Lazio, lo avrebbero già fatto santo», dice il suo autista. Privo dell’appeal (e dei capitali) della Roma, Lotito è sempre riuscito a tenere la Lazio ben al di sopra della linea di galleggiamento: conti in ordine, qualche vittoria sportiva di non poco conto e un controllo paramilitare dell’intero sistema calcistico italiano tra cordate di potere in Lega e in Federazione, partecipazioni in altre squadre (il caso Salernitana è emblematico) e, pare, centinaia di cartellini sparsi nelle serie dilettantistiche.
Eppure, nonostante le evidenti abilità e le chiare fortune, Lotito continua ad essere visto come una specie di saltimbanco, un individuo pittoresco e poco affidabile, una macchietta. Il latinorum, le citazioni maccheroniche, una cadenza non elegantissima e la convinzione di saper fare battute brillanti anche se non è vero, rendono il neo-senatore un oggetto poco adatto al racconto mediatico che si fa dello sport e, in parte, anche della politica. Lotito non ha nulla del politico moderno e infatti tutto quello che sa e sa fare ha il sapore antico di un’Italia che forse non è neppure mai esistita: quella delle tradizioni popolari e degli impicci, della saggezza un tanto al chilo e delle botte di matto, della paura di muoversi e della disinvoltura con cui si dicono le peggiori cazzate che possono saltare in mente a chiunque ma che solo pochi poi trovano il coraggio di pronunciare in pubblico.
C’è chi vede nel suo arrivo al Senato soltanto un modo per sfuggire alla legge: il discorso sull’immunità parlamentare è sempre lo stesso ed è buono per ogni stagione, quindi non deve stupire se riemerge anche per uno che nella sua vita è stato pure arrestato per una storiaccia di appalti nel Lazio (era l’inizio degli anni ’90).
Imprenditore fallimentare, imprenditore di successo, presidente di una squadra di calcio, proprietario di un’altra, in trattativa per acquistarne un’altra ancora. E ancora: comparsa nel sequel dell’Allenatore nel pallone con Lino Banfi e nella serie I Cesaroni, ospite di talk show su tutte le reti a parlare degli argomenti più disparati, imitato da Max Giusti, addirittura rubrichista nella non fortunatissima trasmissione Undici che per un periodo andò in onda su Italia 2. Marito fedele e padre amorevole in un matrimonio molto politico con Cristina Mezzaroma, figlia del patriarca Gianni, esponente di una delle più potenti e temute famiglie dell’edilizia romana. Dispensatore di aforismi, moralista e antimoralista allo stesso tempo, protagonista di epici sbrocchi e mirabolanti dichiarazioni d’amore.
Ha fatto talmente tante cose che non ha nemmeno un vero e proprio soprannome, e allora non resta che affidarsi a quello che è per definirlo: all’età di anni 65 è divenuto uomo dello Stato Claudio Lotito. Lotutto.