Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, ma non solo. Le vittime della strage di Capaci sono state molte di più, e chi non ha perso la vita ha iniziato lentamente a morire dentro, quando l’asfalto è impazzito in un sabato pomeriggio di quasi estate. A Capaci la montagna sembra proteggere da un lato e il mare dare speranza dall’altro: tutto e niente, nel luogo della strage più assurda e malefica dell’ultimo mezzo secolo di storia repubblicana.
C’è tanta Italia in quel pezzo di autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi al capoluogo siciliano. Perché Falcone non è solo Palermo e Cosa Nostra non è solo in Sicilia. Ci sono le scorie dei vent’anni precedenti tra terrorismo e strategia della tensione, morti ammazzati e bandiere da sventolare anche in assenza di vento.
C’è un Parlamento spaccato all’alba di Tangentopoli, che acuisce le differenze di percezione tra quello che succede a Milano e quello che da anni è la quotidianità in Sicilia: cori da stadio per Antonio Di Pietro e i suoi colleghi; silenzio assoluto e quasi fastidio per Falcone e gli altri magistrati del pool antimafia. Un cambio di direzione repentino dall’eccessivo sospetto nei confronti della giustizia all’esaltazione del lavoro dei magistrati: immagine plastica di un paese che si specchia nella lotta tra guardie e ladri ma non riesce ancora a considerare l’importanza del lavoro di chi utilizzava metodo diverso ma aveva uguale obiettivo, i flussi di denaro sporco e la lotta al «puzzo del compromesso morale e dell’indifferenza» sottolineata strenuamente da Paolo Borsellino.
Falcone l’antidivo, Falcone lo scomodo, Falcone che per qualcuno voleva fare il Presidente della Repubblica. E al netto delle velleità mai provate, a incidere sulla scelta del Quirinale ci sarebbe riuscito due giorni dopo essere stato ucciso. Il 25 maggio 1992 c’è un Presidente della Repubblica da eleggere come successore di Francesco Cossiga: sarà Oscar Luigi Scalfaro, già sullo scranno più alto della Camera e immolato dalla Democrazia Cristiana proprio dopo quell’attentato – a pochi mesi dalla conferma in Cassazione delle condanne del Maxiprocesso di Palermo – che costerà la poltrona del Quirinale a Giulio Andreotti. È un Paese che cambia nelle logiche politiche e cerca di uscire dal buio, quello post Capaci.
A trent’anni di distanza da quella strage è ancora difficile elaborare il lutto. E chi ha perso i riferimenti non è più riuscito a trovarli, alimentando negli anni un trauma ancora vivo. Il nome di Falcone, della moglie e dei ragazzi della scorta svetta sulle facciate di aeroporti, scuole, aule dei palazzi di giustizia e in tutti quei luoghi in cui lo Stato c’è, o dovrebbe esserci. Cosa, però, chi occupa le poltrone in cui si fa l’Italia abbia imparato dalle stragi non è ancora chiaro e palpabile. Perché il percorso degli ultimi trent’anni è stato scandito da trattative serrate con chi va condannato e non ascoltato o assecondato, in un’antinomia sporcata da contrapposizioni solo accennate che non ha indicato vincitori e, soprattutto, vinti.
La politica non è riuscita pienamente a dare man forte a quella magistratura sì inquirente ma non opprimente, accontentandosi di celebrare una volta all’anno – vestita in doppiopetto – il sacrificio di chi aveva scelto di servire lo stato senza nessuna ambizione di diventare eroe. Se i minuti di silenzio consumati in questi trent’anni in ogni angolo d’Italia fossero strati trasformati in parole e azioni più concrete rispetto a quanto già detto o visto, e gli interventi fossero stati più grandi e più forti, il percorso sarebbe stato più agevole.
Oggi l’esempio di Falcone è il corredo necessario per determinare quel cambiamento millantato e indicato già trent’anni fa dalle lamiere contorte tra le montagne e il mare. Da Capaci, la strada è ancora lunga.