Tardo pomeriggio, agosto, Cincinnati. I ponti della Queen City sono sigillati, il cielo è sporcato dagli elicotteri, e sembra che tutti i poliziotti nel giro di 100 km siano di pattuglia sulla Pete Rose Way, vicino al Fiume Ohio. Una folla di 20mila persone è ferma nel caldo asfissiante in attesa di entrare nella U.S. Bank Arena. C’è una voce terribile che si diffonde tra le file di teste e cappellini MAGA: forse non tutti riusciranno a incontrare Donald Trump.
«Non possiamo entrare solo per un minuto?», si lamenta con la madre un bambino di 10 anni. Qui ci sono un sacco di bambini.
Donald Trump non fa visita alla Middle America. Lui discende sulla Middle America. I suoi comizi sono spettacoli straordinari. Tutti i balordi scendono dalle colline per ascoltarlo. Se la NASA partisse in tour per mostrare al paese il primo esemplare di vita aliena, il risultato sarebbe simile. Forse ci riuscirebbe anche il Papa, ma dovrebbe guidare un Monster Truck.
Più o meno chiunque nella fila indossa gadget presidenziali. Trump è il presidente più brandizzabile della storia, per usare un eufemismo. C’è il Trumpinator, stampato su magliette con scritto “2020: I’LL BE BACK”, poi Trump nei panni di Rambo (completo di bandana, cintura di pallottole e lanciarazzi fallico), Trump come The Punisher, persino Trump-Superman (che apre la giacca per mostrare una grossa T).
Tra gli slogan: “Trump 2020: Grab ‘em by the Pussy Again!” E l’onnipresente “Trump 2020: Fuck Your Feelings”.
Un ambulante – un uomo afroamericano con visore, occhiali con fascetta e capelli a punta dipinti di bianco – si infila tra la folla cercando di vendere una maglietta con su scritto “Donald Fuckin’ Trump”. Sul retro si legge: “Bitch I’m the President!”. «Cinque dollari per i cappelli, dieci per le magliette!», grida. «Make America Great Again!».
«Altri quattro anni!», urla qualcuno per rispondere.
Dopo due anni e mezzo di presidenza, Trump si è già intestato un ruolo che nella storia è solitamente riservato ai monarchi alla fine di lunga una serie di matrimoni tra consanguinei. Gli storici lo metteranno da qualche parte tra Vlad l’Impalatore e Carlo VI di Francia, il Re convinto che le sue natiche fossero fatte di vetro.
Gran parte dell’America ama il suo Re Folle, le cui opere son sempre in bella mostra. I russi governati da Ivan il Terribile erano abituati a vedere cani scendere dalle mura del Cremlino, scatenati dallo zar quando era di cattivo umore. Gli Americani si stanno abituando agli insulti notturni via twitter, inviati dalla camera da letto della Casa Bianca verso altre potenze nucleari.
La follia dei reali di solito è un segreto, ma nell’America ai tempi di Twitter è un’esperienza nazionale condivisa. Facciamo tutti capriole dentro e fuori alla buona salute mentale. La cosa più sconvolgente di Trump è che non è stato scelto da un concilio di Borboni, o dalla legge di successione. L’abbiamo eletto, e siamo pronti a farlo ancora.
La storia non ci giudicherà con gentilezza, e guarderà con particolare veleno agli oppositori di Trump di entrambi i partiti, che negli anni non sono riusciti a vincere contro un uomo che nessuno lascerebbe da solo con i propri beni preziosi, figuriamoci con i propri figli.
Il destino originale di Trump era la distruzione dei Repubblicani come entità della moderna politica americana. Poi ha condotto la campagna elettorale come se volesse perdere a tutti i costi, e ha vinto. Adesso la sua eredità sarà la fine spettacolare del fragile consenso razziale americano.
Dieci anni fa, un uomo afroamericano entrò alla Casa Bianca per un soffio; oggi, il presidente è un misto tra un membro del KKK e Jimmy The Geek. La leggenda che circola nel mondo dei media è che Trump ha successo perché è razzista, ma la realtà è molto peggiore. Trump è 50 anni indietro rispetto ai peggiori elementi del Partito Repubblicano, lo stesso partito che per decenni ha sotterrato la questione razziale sotto promesse inaccettabili.
Siamo passati dallo scetticismo sulla cittadinanza di Obama agli apprezzamenti verso nazisti “molto capaci” e alla versione Twitter del motto “Tornate in Africa”. A Cincinnati, anche il più esagitato dei suoi supporter vorrebbe che tacesse. «Mi piacerebbe», dice un fan, «che si contenesse un po’».
Nonostante tutto, ogni volta che Trump sembra diretto verso la pattumiera della storia, riesce in qualche modo a sopravvivere grazie alla paralisi silenziosa dell’opposizione democratica. Quando ha distrutto gli altri candidati repubblicani nel 2016, i Democratici festeggiavano. Quando hanno perso le elezioni, si sono comportati come se i due eventi fossero scollegati, un insulto alla decenza. Oggi restano inefficaci, una battuta nella narrativa di Trump.
Questo ciclo ha alienato il paese e trasformato le elezioni del 2020 in una black comedy macabra ed estenuante. Questa è la pena che paghiamo per aver trasformato la campagna presidenziale in un carrozzone circense, in intrattenimento. I cittadini della Middle America sono così abituati a non sapere nulla delle elezioni che hanno iniziato a trattare la politica nazionale per come la vedevano, cioè una sitcom pretenziosa.
Ora sono loro a scrivere la sceneggiatura. Non possono far sì che Jake Tapper sia dato in pasto agli squali, ma si accontenteranno di assicurarsi che Donald Trump resti a Washington. È difficile da vedere adesso, di fronte alla fine della nostra società e tutto il resto, ma la situazione non è priva d’ironia. Riuscirà l’America a spararsi in testa una seconda volta? Suona, ed è più che appropriato, come la premessa di una serie tv scritta da Trump.
Ecco quanto si è degradato il panorama politico: Mike Pence, adesso, sembra un vice presidente. Nel 2016, sopratutto dopo l’episodio “grab ‘em by the pussy”, il genuflesso dell’Indiana sembrava un uomo costretto a difendersi da un plotone di cannibali. Oggi, sul palco a Cincinnati, è entusiasta di presentare Sua Trumpità.
“E adesso, è un grande onore e privilegio presentarvi un mio amico” – Pence ce la mette tutta – “e il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America, il Presidente Donald Trump!”.
La folla esplode in ruggiti, canti, cori. Trump appare sul palco. God Bless the USA di Lee Grenwood pompa nelle casse dello stadio.
Il presidente si prende parecchio tempo prima di salire sul podio. Regala ai fotografi le sue pose migliori: l’applauso, il saluto, le mani sui fianchi, il bacio. È I’m Too Sexy trasformata in politica. La maggior parte dei candidati guarda il pubblico come se fosse alla ricerca di un cecchino, ma Trump si comporta come se fosse pronto a posare per una lezione di frottage.
«E poi c’è questa cosa, sì», dirà più tardi un giovane supporter di nome Andrew Walls. «Lui aaama quello che fa».
Trump alza i pugni verso un uomo vestito da militare. Quando gira lo sguardo verso la sua direzione, l’uomo inizia ad avere degli spasmi, come un cane pronto a fare i bisogni. Il resto della folla solleva le braccia come Pentecostali, oppure fa il segno della vittoria con le dita. È un pandemonio.
Trump si avvicina al leggio. I suoi capelli sono molto più gialli del 2016. È un colore straordinario, innaturale, come se la chioma fosse fritta nella mostarda. Il suo corpo senza collo è una meraviglia altrettanto straordinaria. Sembra che abbia ingoiato Nancy Pelosi.
«Sapete», dice a proposito del dibattito dei Democratici a Detroit, «l’altra sera guardavo il cosiddetto dibattito…»
Buuu!
«…quella era televisione lenta, molto lenta».
Su questo ha abbastanza ragione. Viene da pensare che Trump abbia volutamente programmato il comizio dopo il dibattito, così da sfruttare il traino dei media dei democratici falliti. Continua:
«I democratici perdono più tempo ad attaccare Barack Obama che me, in pratica», dice alla folla urlante. «E oggi i fake media non parlavano d’altro».
BUUUUUUUUUU!!!!
Niente accende l’entusiasmo della folla più dei “fake” media. Trump lo sa benissimo, e fa una pausa per far crescere la bile. Si dice felice di essere tornato “nel cuore dell’America”, che pronuncia come se avesse appena imparato la parola.
Poi inizia una riflessione sulla campagna del 2016, quando orde di persone si sono catapultate nei seggi per mandarlo a Washington, persone che abitano in posti che Trump non visiterebbe mai se non dopo un incidente aereo.
«Siete arrivati dalle montagne, dalle valli e dai fiumi e, beh, siete arrivati da…» – non sembra conoscere cosa venga dopo i fiumi. «Insomma, siete arrivati da dove siete arrivati, ed eravate parecchi».
Finisce raccontando una storia sul voto in Tennessee, quando un deputato gli disse che se tutto il paese avesse votato come quel giorno, avrebbe vinto di parecchio. «E abbiamo vinto», dice. «Abbiamo vinto di parecchio».
La stampa direbbe che è una bugia, certo che lo è, e persino il pubblico sembra saperlo. Ma festeggiano comunque. Trump si ferma e si mette nella sua posa simbolo, girato di lato per mostrare a tutti il suo profilo iguanoide, poi inizia a girare attorno al leggio in tutta la sua splendente gloria obesa, come se invitasse tutti a prenderne un bel po’.
È compiacente, assurdo, narcisista e spaventoso. A meno che tu non sia un fan di Trump, in questo caso è straordinario, il sequel perfetto alle risate che si sono scatenate in molte parti d’America durante il concession speech di Hillary Clinton.
La folla che ascolta Trump è cambiata. All’inizio del 2016 strappare una dichiarazione ai partecipanti dei comizi era più difficile che con un gruppo di uomini etero che si sono appena masturbati a vicenda dietro una roulotte. Nessuno voleva parlarne. Poi, con il passare del tempo, il pubblico è cambiato. Ci sono sindacalisti, veterani, e quello strano fiume di persone che non sembra né repubblicano né interessato alla politica in generale. Alcuni sono giovani, altri anziani, ma nessuno riesce a pensare a Trump come a qualcosa di diverso da una star della TV. I numeri di questo gruppo sembrano aumentati parecchio.
«Ho guardato Celebrity Apprentice, e l’ho amato» , dice Jackie Hoffman, una nonna di 60 anni convinta che «non abbiamo mai avuto qualcuno come Trump» candidato alla presidenza. «Ronald Reagan era una celebrità, ma non era, insomma, una grande celebrità», dice.
«Voglio solo godermi lo spettacolo», dice Walls. Mentre parliamo, osserva i banchetti pieni di Trump merchandising. Gli piace la versione Punisher, ma anche la maglietta Trumpinator. «Se avessi i soldi», dice, «probabilmente la comprerei».
Walls e il suo amico James Monroe hanno guidato fin qui dal Kentucky. Walls è un elettore entusiasta, Monroe no – è qui per lo show. Nonostante non la pensino allo stesso modo sulle politiche presidenziali, entrambi mi raccontano che erano sorpresi della vittoria del 2016.
È una sensazione comune. Quando chiedi alla gente cos’è che li ha colpiti di più di Trump, tutti rispondono: “ha vinto nonostante la stampa”. Nella scala di gradimento del paese, l’informazione è tra l’herpes e l’ISIS. «La maggior parte dei media è molto liberal», dice Monroe. «Non so come abbia fatto a vincere».
Skylar Easter, 23 anni, e Sahara Hollingshead, 19, sono una giovane coppia di Circleville, Ohio. Skylar ha lunghi capelli biondi, una barba e una maglietta freak, sembra la versione Una vita al massimo di Brad Pitt. Sahara ha degli occhiali viola, e mi dice: «Molte donne e minoranze hanno lavoro ora, più degli ultimi 30 anni. È grandioso». I due sono stati recentemente assunti da TriMold, costruiscono componenti per Honda. «Stiamo in postazione e utilizziamo una macchina», dice Skylar. A Sahara piace lo stile di Trump, perché «non ha paura di andare fino in fondo».
La maggior parte degli elettori di Trump lo considera un uomo “con cui identificarsi”, e non “un falso”. I lettori democratici pronti a urlare dovrebbero cercare di capire questo fenomeno, perché risponde a un reale problema del loro partito.
L’americano medio ama la carne, lo sport, i soldi, il porno, le macchine, i cartoni e lo shopping. Meno popolari: il socialismo, il privilege checking e la fine del mondo nei prossimi 10 anni. Ironia della sorte, e forse proprio grazie a Trump, la retorica democratica del 2020 è decisamente negativa sulla vita americana. Tutti i discorsi sono storie dell’orrore di massacri in sinagoga, gente che muore senza insulina e atrocità al confine. I repubblicani che si lamentavano dei liberali che “chiedono scusa per l’America” erano ridicoli, ma i democratici del 2020 suonano come se fossero appena fuggiti dai Campi della Morte.
Ronald Reagan, una volta, conquistò il voto operaio dando a tutti il permesso di sentirsi orgogliosi della bandiera. Trump ci dà il permesso di essere l’americano medio statistico: obeso, pieno di dolori intestinali, ignorante, anti-intellettuale, legato agli oggetti materiali e con una pessima storia creditizia, spesso segreta.
Trump, in questo senso, è molto più americano di Mark Spitz, Liberace, Oprah, Audie Murphy e Marilyn Monroe. È un monumento all’economia dei consumi. È l’incarnazione delle tette finte, delle piccole truffe, delle frottole, delle auto inquinanti e di centinaia di altre tradizioni americane.
Per questo l’eterna cronaca delle bugie di Trump non scalfisce la sua popolarità. Gli elettori di Trump non hanno bisogno di PolitiFact per capire con chi hanno a che fare. Lo vedono nel suo girovita. Pochi politici nella storia si sono mostrati agli elettori più di Trump. Cristo, sappiamo persino com’è fatto il suo pene.
«La figata di Trump», dice il 38enne di Cincinnati Jeremy Holtkamp, «è che è un semplice americano». La sua strategia politica è primitiva ma efficace. Prende qualcosa con pessimi sondaggi, e gli dà un calcio nelle palle. Poi si tira indietro e lascia che tre eterne verità facciano il resto del lavoro.
La prima: Un media che pretende che nel paese si sollevi un’indignazione morale continuerà a raccontare ogni mossa di Trump (i guadagni della tv via cavo sono aumentati del 36% dall’inizio della sua campagna elettorale).
La seconda: In un panorama politico frammentato, i cosiddetti “veri politici” che dovrebbero combattere Trump passano tutto il loro tempo a darsele a vicenda. Questo succede perché gli intellettuali non riescono a prendere sul serio la sua versione idiota della cosa pubblica.
La terza: Le classi abbienti americane e i loro simili nel governo e nei media non hanno capacità di auto-analisi, e si rendono ridicoli nel dibattito. È così che Trump alimenta il suo successo, costringendo chi ne sa più di lui a inseguire ogni sua esca. È una formula semplice: scatena risse che assomigliano a chiare sconfitte politiche, poi manovra le controversie a suo vantaggio.
Trump ha lanciato la sua campagna elettorale per il 2020 il 18 giugno, a Orlando. Nel giro di un mese aveva già trovato la sua prima battaglia. Sullo sfondo c’era la sua decisione di aumentare il numero di processi per attraversamento illegale dei confini. L’idea era rendere sistematica la separazione delle famiglie in custodia, una mossa che non avrebbe avuto nessuna funzione se non quella di deterrente in stile crocifissioni alla Game of Thrones.
Quando tutti, dall’Accademia Americana di Pediatria a sua moglie fino a Lindsey Graham, hanno commentato con disgusto – Donald, i bambini? – Trump ha firmato un ordine esecutivo per ribaltare la legge. Poi ha dato la colpa del casino ai democratici. A quel punto, l’idea era diventata un fiasco, e come tutte le cose dell’era Trump, un’esca per i media di dimensioni mostruose.
Nel frattempo, Nancy Pelosi e i suoi “moderati coraggiosi” cercavano di far passare una legge bipartisan sui confini sostenuta dal leader della maggioranza in Senato Mitch McConnell. I progressisti che volevano una riforma dell’intera macchina di controllo dei confini erano indignati.
Un deputato del Wisconsin ha paragonato i moderati democratici ai pedofili, e la sovversiva di Twitter Alexandria Ocasio-Cortez ha gridato: “Diavolo, no”. Quando Pelosi ha risposto alla Ocasio-Cortez e a tre altre deputate, definendole parte del “loro pubblico non so cosa e del loro mondo di Twitter”, la deputata del Bronx l’ha accusata di aver “discriminato neoelette di colore”.
In quello che è forse il momento più prevedibile di tutta la sua presidenza, un gioioso Trump è saltato addosso a questa battaglia razziale democratici-contro-democratici. Ha detto che Ocasio-Cortez era stata “molto irrispettosa” e “non credo che Nancy possa lasciar passare”.
Nancy! La familiarità lasciva con cui Trump ha usato il nome della portavoce l’avrà disturbata come se le avesse leccato l’orecchio. Pelosi, a quel punto, era nell’angolo. Un passo in avanti sarebbe stato come accettare l’abbraccio di Trump. Farne uno indietro come una resa incondizionata.
Un politico normale, consapevole, cioè non Donald Trump, avrebbe aspettato che Pelosi si liberasse di quella mina anti-uomo. Ma il presidente ha subito tirato fuori il famoso tweet sulla “squad” – le deputate Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tliab e Ayanna Pressley – in cui chiedeva alle donne di “tornare e contribuire a sistemare quei posti infestati di criminali da dove sono venute”.
Per la milionesima volta dall’inizio della sua campagna presidenziale, sembrava che Trump avesse fatto un errore imperdonabile, rivelandosi come un razzista incoerente impegnato in una missione suicida. Ma oggi siamo in grado di capire che per Trump queste sparate non sono mai fatali.
L’impatto pratico dei deliri estivi del Presidente è stato che tutti sul Pianeta Terra hanno dimenticato la controversia originale. Al contrario, il paese si è scatenato in una rissa sugli atteggiamenti razzisti di Pelosi, la pericolosità di Baltimora e una dozzina di altre cose.
Presto, i candidati democratici si sono ritrovati talmente invischiati nel caos immigrazione da coalizzarsi contro l’impotente Joe Biden, colpevole di non aver fermato il “Deportatore Capo”, Obama.
Un classico di Trump. Crea controversie così velocemente che è impossibile stargli dietro. Quando si calmano le acque, tutti sono sporchi di fango e Re Donald si vanta di aver fatto tutto di proposito, e potrebbe davvero essere così. Alla fine, ricorderemo solo i suoi antagonisti messi alle strette dai suoi capricci.
L’America è incasinata, certo, ma è così incasinata? Cosa succederebbe se non avessimo un presidente ossessionato da Twitter, o spegnessimo la tv? La vittoria del 2016 di Trump è arrivata solo grazie a una manciata di complici inconsapevoli. I Repubblicani hanno diviso il voto delle primarie, i Democratici hanno scelto un candidato sbagliato, e i media non solo hanno speso miliardi di dollari in coverage gratuito di Trump, ma hanno anche costantemente confermato le sue assurdità con previsioni sbagliate e altezzose. Un bambino non cadrà mai due volte di fila nello scherzo del “tirami il dito”. Ma il potere congiunto dell’intelligenza istituzionale americana sembra voler aprire ancora la strada a Trump continuando a fargli da spalla.
Tornati sulla Pete Rose Way, una piccola folla di un centinaio di manifestanti protesta a margine della strada. Una manciata di universitari dall’aria arrabbiata impugna uno striscione dove c’è scritto “Qui l’odio non è di casa”. Un giovane attivista con il megafono va avanti e indietro lungo il corteo.
«Odio dovervi dare una brutta notizia», urla dall’altra parte della strada. «A Trump non frega un cazzo dei lavoratori!».
«Vaffanculo!», urla un tizio con il cappellino MAGA insieme a due amici. Il trio ride e si batte il cinque. Se la stanno spassando un mondo. E la rabbia dei manifestanti di sinistra è la parte migliore.
Durante tutto il discorso di Trump, il pubblico ha continuato a provocare i manifestanti. La situazione si è fatta così tesa che un gruppo di poliziotti con l’elmetto è arrivato sul posto per costruire una barricata ad hoc in mezzo alla strada.
«È un cazzo di truffatore», grida il ragazzo col megafono dall’altra parte. «Donald il truffatore… potere alla classe operaia!».
«Siamo noi la classe operaia, ragazzino!», urla un uomo più anziano. Altre risate.
«Basta odio!», cantano i manifestanti.
«Altri quattro anni, stronzo!», rispondono dall’altra parte.
La strada è larga quattro corsie, ma potrebbe benissimo essere un continente. Due gruppi di persone si mandano al diavolo dai due lati di una barricata. Benvenuti nell’America di Donald Trump.