Ricorderemo il 24 febbraio 2022 come la data in cui, dopo più di vent’anni di fraintendimenti e fumo negli occhi, siamo scesi a patti con la vera essenza di Vladimir Putin. In un raro lampo di lucidità, anche i sostenitori più accaniti sembrano essersi resi finalmente conto che il presidente russo non è lo stratega raffinato, l’abile statista e l’ultimo dei fautori della realpolitik che un certo consesso mediatico e di potere – per motivi di bottega – ha provato a venderci nei tempi più recenti.
Eppure, dal 1999 – quando un ex agente del KGB pressoché sconosciuto all’opinione pubblica fu designato come primo ministro della Federazione Russa dal presidente Boris El’cin, che lo desiderava fortemente come successore – a oggi, Putin ha lasciato poco spazio all’ambiguità: mentre i suoi ammiratori si sperticavano in lodi esaltandone le gesta, ora appoggiando il referendum-fantoccio sull’annessione della Crimea e presentandolo come una libera scelta dei cittadini, ora enfatizzandone le doti di mediatore internazionale, lo zar del XXI secolo ha continuato a mettere in campo i suoi metodi ben poco ortodossi, tra avvelenamenti di oppositori politici, sicari muniti di novichok e inviati nelle principali capitali europee per eliminare le voci un po’ troppo critiche, crociate senza frontiere contro il giornalismo indipendente e continue violazioni del diritto internazionale e della sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina, come avvenuto nel 2014.
Insomma, Putin è un autocrate radicale, spietato tanto nella repressione del dissenso sul fronte interno, quanto nel portare avanti una politica internazionale aggressiva e sconsiderata su quello esterno: non ha iniziato oggi, è il physique du rôle che incarna da sempre.
Lo scisma ucraino è soltanto l’ultimo tassello di una strategia che il numero uno del Cremlino persegue da tempi non sospetti, non rinchiudendosi in solitudine nelle segrete stanze, ma coordinandosi con una cabina di regia ristrettissima, composta da personaggi di spicco dell’élite russa che condividono con Putin ambizioni geopolitiche molto aggressive, un retroterra culturale ben definito e una particolare visione del mondo, capaci di influenzare il suo operato e indirizzare le sue scelte politiche in una direzione ben precisa.
Si tratta dei cosiddetti “siloviki”, parola con cui nel gergo russo vengono indicate quelle personalità politiche accomunate da un passato negli apparati di sicurezza e che costituiscono un gruppo influente nella cerchia ristretta del presidente Vladimir Putin.
Una circostanza che non dovrebbe stupire: lo stesso Putin, com’è noto, è particolarmente fiero del suo passato tra le fila del Kgb e dell’Fsb, e vede nei cosiddetti “c ekisti” (termine derivato dalla prima polizia segreta, Čeka, che indica i membri della comunità d’intelligence) la vera élite russa.
Come ha evidenziato Andrew Roth sul Guardian, si tratta di personalità spesso poco considerate dalla cronaca di ogni giorno, ma che esercitano un certo ascendente sull’andamento della politica russa e si configurano come figure di spicco nello staff politico di Putin: conosciamoli meglio.
Sergej Ivanovov
Uno degli storici uomini chiave dell’apparato di potere di Putin: è stato ministro della Difesa della Federazione Russa dal 2001 al 2007 e vice Primo ministro dal novembre 2005 al febbraio 2007. Alla fine degli anni ’70, diede inizio alla propria carriera – durata più di vent’anni – nello staff del servizio di intelligence esterno. Nel 1976 ha completato gli studi post-laurea in controspionaggio, diplomandosi ai corsi superiori del KGB a Minsk. Nello stesso anno, fu mandato a servire per la direzione del KGB di Leningrado e Oblast: in quel contesto divenne amico di Vladimir Putin, inaugurando un sodalizio che dura ancora oggi. Nel dicembre del 2011 Ivanov è stato nominato capo di stato maggiore, distinguendosi per il suo ruolo apicale nell’intervento militare russo durante la guerra civile siriana. Nell’agosto del 2016 è stato sollevato dalla sua posizione, venendo sostituito da Anton Vaino e assumendo il ruolo di inviato speciale per i trasporti e l’ambiente. Il licenziamento di Ivanov da parte di Putin faceva parte di una serie di sostituzioni degli anziani fedeli a Putin con un gruppo di giovani lealisti, Tuttavia, il rapporto Steele – il dossier che approfondisce i legami tra l’ex presidente americano Donald Trump e la Russia – afferma che il suo incoraggiamento a intromettersi nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 2016 abbia provocato un contraccolpo imprevisto contro il Cremlino, trasformandosi in un boomerang e, quindi, nel presupposto del suo licenziamento.
Nikolai Patrusehv
Soprannominato “hawk’s hawk”, Patrushev interpreta il ruolo informale di consigliere per la sicurezza nazionale di Putin. Anche Patrushev, come tutti i siloviki, ha un passato nell’intelligence: ex ufficiale dei servizi segreti, conobbe Putin dagli anni ’70, quando i due lavoravano insieme nel KGB di Leningrado. Presiede il consiglio di sicurezza dal 2008. Le sue interviste ambigue hanno spesso fatto emergere il ritratto di un lealista abilissimo dal punto di vista retorico, sempre pronto a puntare il dito contro le potenze occidentali ree di stare architettando un piano indirizzato alla distruzione la Russia. Gli Stati Uniti «preferirebbero di gran lunga che la Russia non esistesse affatto come Paese», ha detto in un’intervista del 2015. La sua retorica sull’Ucraina, che definisce un “protettorato” dell’Occidente, ha fatto breccia anche nei discorsi pubblici di Putin. Patrushev è stato anche accusato di aver approvato l’esecuzione di alcune personalità invise all’apparato di potere russo. Ad esempio, un’indagine pubblica del Regno Unito nel 2016 ha rilevato che «l’operazione dell’FSB per uccidere Alexander Litvinenko – il dissidente morto nel novembre 2006 a causa di un avvelenamento da radiazioni in circostanze poco chiare – è stata probabilmente approvata dal signor Patrushev». Inoltre, alcune fonti diplomatiche hanno riferito al Guardian che gli agenti russi accusati di aver tentato di organizzare un golpe in Montenegro nel 2016 sono stati autorizzati a lasciare il Paese a bordo di un aereo messo a disposizione da Patrushev. Come attività ancillare, presiede anche la Federazione russa di pallavolo.
Sergei Naryshkin
Capo del servizio di intelligence estero russo, Naryshkin è un ex ufficiale del KGB e conosce Putin almeno dagli anni ’90, quando i due lavoravano presso l’ufficio del sindaco di San Pietroburgo. Naryshkin è un lealista di Putin che ha seguito il leader russo al Cremlino sin dagli inizi, servendo come suo vice capo dello sviluppo economico dal 2004, poi come capo dell’amministrazione presidenziale di Dmitry Medvedev dal 2008 e poi presidente della Duma di Stato dal 2011 al 2016. Negli ultimi tempi si è contraddistinto soprattutto per alcune dichiarazioni ambigue relative all’avvelenamento di Alexei Navalny, presentandolo come un complotto ordito dai servizi di intelligence occidentali allo scopo di «far rivivere il movimento di protesta inaridito in Russia». È anche il coordinatore della Russian Historical Society, un’associazione che si occupa di promuovere una certa interpretazione della storia russa, ovviamente favorevole agli obiettivi di espansione coloniale.
Alexander Bortnikov
È il capo dell’FSB – il Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa – e svolge un ruolo chiave nel mantenere l’ordine e reprimere il dissenso nel Paese. Conobbe Putin negli anni ‘70, sempre a Leningrado. Suo figlio Denis è il vicepresidente e presidente del consiglio di amministrazione della banca statale VTB Bank.
Sergei Shoigu
Originario di Tuva – una repubblica buddista in Siberia che confina con la Mongolia – e ministro della Difesa della Federazione Russa. A differenza degli altri, non ha un passato nel KGB. Tuttavia, è impossibile non menzionare il ruolo che ha giocato negli sviluppi della guerra in Ucraina – che nel luglio del 2014 ha aperto un procedimento penale nei suoi confronti con l’accusa di aver contribuito alla formazione “gruppi militari illegali”, che all’epoca combattevano contro l’esercito nazionale. Evgeny Minchenko, un analista politico che redige ogni anno una classifica di potere dei funzionari russi, ha detto all’inizio di quest’anno che «In questo momento, c’è solo un membro del gabinetto che è nel ‘politburo 2.0’. E questo è Shoigu». Come ministro della Difesa, Shoigu in più occasioni ha accompagnato Putin durante le pause del fine settimana, che i due amerebbero trascorrere in luoghi sconosciuti nella campagna siberiana, dilettandosi nella caccia e nella pesca.