Un barbecue coi nazisti del Kentucky | Rolling Stone Italia
Politica

Un barbecue coi nazisti del Kentucky

Una giornalista racconta dall'interno il più importante comizio suprematista nella storia recente degli USA

Art Jones fa il saluto nazista per concludere il suo discorso. Foto: Tod Seelie

«La maggioranza dei bianchi è stufa di questi politici bugiardi, traditori, ladri, guerrafondai e molestatori, magnaccia e puttane», ruggì Art Jones. «Di questo sistema corrotto e decadente, dei due partiti, del partito degli ebrei, del sistema delle feste queer!». L’uomo gesticolava animatamente agitando le mani ossute. La cravatta stringeva attorno al collo, decorata con uno stemma composto da due bandiere fuse assieme: quella americana e un’altra rossa, con una svastica.

Era una gloriosa e leggera serata di aprile del 2017, e una coalizione di suprematisti bianchi si era riunita tra le colline verdi e lussureggianti del Kentucky. Il luogo dell’incontro era un grosso prato di proprietà privata, adesso riempito da camion, tende e un paio di bagni chimici. Mentre il sole tramontava, una folla particolarmente pallida e piena di uomini si raccoglieva attorno alle auto ridendo e fumando. Un ragazzino poco più che adolescente saltellava indossando una maglietta del Daily Stormer, un sito popolato da troll neo-nazista. Un uomo calvo con una curata barba da accademico e occhiali dalla montatura d’argento si è fermato di fronte a me e al fotografo con cui sto viaggiando.

«Avete per caso della crema?», ha chiesto indicando il nuovo tatuaggio sulla sua gamba, aveva un aspetto pruriginoso e mal cicatrizzato. Non avevamo niente del genere, ma ho fatto comunque finta di guardare nella borsa, credo volessi sembrare amichevole. L’obiettivo della serata, in fondo, era trovare nuovi amici, unire gruppi di razzisti in un tutto armonioso, possibilmente per denunciare la malvagia cabala ebrea che schiavizza l’America e il mondo, e per prepararsi alla guerra che sarebbe presto arrivata.

Matthew Heimbach aspettava un momento come quello da tutta la vita. Era il fondatore e l’uomo più noto del Traditionalist Worker Party, e quando l’abbiamo incontrato in Kentucky era impegnato a capitalizzare alcune cose: la rabbia sociale, la disaffezione dell’elettorato bianco, e gli ammiccamenti senza vergogna di Donald Trump, all’epoca presidente da alcuni mesi.

Il TWP è stato descritto dal Southern Poverty Law Center come “un gruppo di bianchi nazionalisti che sogna un mondo di nazioni di razze pure, e che incolpa gli Ebrei per molti dei problemi del pianeta”. Per farla breve, il TWP era il giocattolo di Heimbach, l’estensione di tutte le sue ambizioni di suprematista bianco.

Per quanto riguarda me, non riuscivo a non pensare a Heimbach e ai suoi scagnozzi come a dei Social Justice Racists. All’epoca del raduno, Heimbach era un ragazzo paffuto di 25 anni, con una barbetta che strisciava dal viso fin sul collo. Abitava in una roulotte, in Indiana, con una moglie, un figlio e un altro in arrivo. Parlava spesso della sua famiglia, soprattutto quando mi ha raccontato con fare da poeta dei suoi piani per difendere gli oppressi uomini bianchi.

La sua fissazione per la famiglia gli si sarebbe ritorta contro in poco più di un anno, quando il TWP crollerà su se stesso per la relazione che Heimbach aveva con la moglie del suocero, Matt Parrott, co-fondatore del partito. Nel frattempo, però, la sua popolarità era arrivata alle stelle grazie ai suoi modi affabili, alla capacità di stringere alleanze, e al suo sorprendente set di posizioni politiche. Il TWP era contro il cambiamento climatico, ma a favore del miglioramento dell’acqua potabile e della sanità per le regioni più povere (e bianche) del paese. Si agitava contro “l’immigrazione di massa” e prometteva che, nel glorioso stato bianco che sognavano di costruire, “solo i bianchi caucasici e i discendenti degli europei” avrebbero avuto diritto a migrare e, soprattutto, sarebbero stati obbligati ad assimilare “la cultura dominante del paese, così da garantire l’unità nazionale”.

Inoltre, forse meno rumorosamente, Heimbach voleva che i vari gruppi di suprematisti bianchi si unissero contro il loro comune nemico, l’ebraismo mondiale. Questo era l’obiettivo della serata in Kentucky: il rilancio di una coalizione di suprematisti bianchi, l’unione di diversi gruppi – il TWP, il National Socialist Movement (NSM), Vanguard America e League of the South – in un nuovo Fronte Nazionalista. L’incontro, in realtà, era il secondo tentativo di formare un’alleanza nazionalista: la prima fu inaugurata dal NSM nell’aprile 2016, e si chiamava Aryan Nationalist Alliance. Il TWP si unì pochi mesi dopo. La coalizione, però, decise di cambiare volto a novembre 2016, quando il Southern Poverty Law Center suggerì che l’NSM volesse, grazie un’idea di Heimbach, nascondere le proprie simpatie per Hitler.

All’inizio del 2017, il TWP annunciò che avrebbe organizzato un comizio per i nazionalisti vicino Pikeville, Kentucky, una piccola città di una regione colpita duramente dal collasso dell’industria carbonifera. Tra il 2010 e il 2015, la zona aveva perso il 5% dei suoi abitanti, costretti a emigrare per trovare lavoro. Pike County è una zona popolata soprattutto da bianchi, e l’80% degli elettori ha scelto Trump. «Non l’abbiamo votato perché siamo razzisti», mi ha spiegato Chase Goodman, che ha vissuto a Pikeville gran parte della sua vita. «Volevamo solo riavere il nostro cazzo di lavoro col carbone».

Un uomo in divisa nazista ascolta in silenzio. Foto: Tod Seelie

Heimbach sperava di sfruttare la rabbia profonda e la disperazione di chi aveva perso il lavoro; sperava anche di esserci quando quella rabbia si sarebbe scatenata verso il nuovo presidente. Subito prima del comizio, mi disse che pensava che l’inevitabile malcontento dell’uomo della strada verso Trump sarebbe presto diventato un vantaggio. «Sapevo che non era uno di noi», ha detto. «Non ho mai pensato che fosse un nazionalista bianco. Speravo che potesse farci guadagnare tempo e polarizzare ancora di più la politica, e così è stato».

Nel tempo, diceva, la classe lavoratrice bianca avrebbe rigettato Trump e il partito Repubblicano in generale: «Perderanno ogni speranza nel conservatorismo, ma non diventeranno democratici. E se ti piace il trumpismo, forse potrebbe piacerti anche il fascismo. Altrimenti dove andrebbero a finire?».

La “conferenza” al centro dell’evento era organizzata in territorio privato perché i nazisti non sono riusciti a ottenere il permesso di farlo su territorio pubblico. Per arrivare sul posto, ci siamo uniti a un gruppo di macchine partito dal parcheggio di un Walmart della città di Whitesburg. A guidare la carovana c’erano alcuni ragazzi più giovani e dall’aria allegra, indossavano magliette nere e stringevano fucili semiautomatici.

Superato Whitesburg, il convoglio si è infilato su una strada stretta e piena di curve, che tagliava a metà un paesaggio punteggiato da cartelloni pubblicitari di avvocati specializzati in infortunistica, dell’Esercito, della donazione d’organi. Mentre le città si facevano sempre più piccole, i cartelloni lasciavano spazio a insegne inchiodate sugli alberi: GIBSON FOR CONSTABLE, diceva una. Un’altra: TRUMP DIGS COAL! Anche i nomi delle città si facevano via via più affascinanti: Rowdy, Dwarf e, finalmente, Democrat. La città era circondata dagli alberi. Delle bambine giocavano a palla nel giardino di una casa con un portico di legno cadente e pieno di roba. Agitavano con dolcezza le mani per salutare il convoglio di macchine; i suprematisti bianchi ricambiavano.

L’estremismo è la pozza più viscida e profonda dove convergono tutti i complottisti, e, soprattutto negli Stati Uniti, l’odio dei suprematisti bianchi. Tutti i gruppi d’odio del pianeta sono alimentati da terrificanti e assurde congetture sulle vittime del loro pregiudizio, dai banchieri globalisti ebrei che tirano le fila della finanza fino agli islamisti che diffondono la Shania sul territorio americano. Un gruppo vicino al Klan, gli Original Knights of America, Knights of the Ku Klux Klan, postano in rete inquietanti avvertimenti sui piani segreti dei musulmani moderati.

Per la maggior parte di questi gruppi sono gli ebrei il nucleo del male, il nemico più potente, il volto nascosto dietro a tutti i problemi dell’America. Ci sono variazioni sul tema – alcuni suprematisti fanno dichiarazioni simili sui neri e gli ispanici – ma dopo molti anni e altrettante forme di disprezzo, gli estremisti si sono focalizzati su un solo obiettivo. Le teorie del complotto sugli ebrei sono tra le più antiche della storia: a seconda dell’interlocutore, gli ebrei hanno avvelenato pozzi, rapito bambini per rituali di sangue, formato una sorta di idra che controlla i governi e il sistema finanziario. Il loro potere è leggendario «Gli ebrei non dormono mai», ha detto Brian Culpepper del National Socialist Movement. «Lavorano 24 ore al giorno, 356 giorni all’anno per distruggerci».

La storia dell’estremismo razzista in America è ammantata di teorie del complotto: la premessa del neo-nazismo è la lotta al controllo segreto degli ebrei, ovviamente, insieme a una generosa dose di negazione dell’Olocausto. Il movimento Christian Identity – un gruppo convinto che il governo federale sia illegittimo, e che non dovrebbero essere soggetti alla legge o pagare le tasse – si basa sull’idea che solo i bianchi europei siano parte del popolo perduto d’Israele, mentre ebrei e non-bianchi vogliono solo cospirare per schiavizzare il pianeta. Questo è solo uno dei volti dell’odio americano, che ha una storia molto più lunga e sanguinolenta. Non siamo mai stati liberi dai gruppi d’odio, non importa se pensiamo al Klan dopo la guerra civile, alla sua resurrezione negli anni ’20, o alla nascita nei primi anni ’70 delle milizie razziste e di estrema destra, a partire dal disorganizzato Posse Comitatus.

Arthur “Art” Jones mostra la sua spilla con la bandiera nazista. Foto: Tod Seelie

La più grande paura dei teorici del complotto dell’estrema destra è l’imminente scalata al potere di un governo mondiale, un’armata che credono voglia mettere il paese sotto il controllo di un potere tirannico. (Il movimento no-global della cosiddetta estrema sinistra non è affatto la stessa cosa: chi ha manifestato a Seattle nel 1999, per esempio, non si preoccupava del “governo mondiale” in sé, ma piuttosto dalla violazione dei diritti umani e dai problemi ambientali che vedevano endemici alla globalizzazione sostenuta dalle corporation). I gruppi di estrema destra lo aspettano da tempo: parlavano della minaccia del Nuovo Ordine Mondiale gli negli anni ’90, e si innervosirono parecchio quando George H.W. Bush lo nominò in un discorso. Altri gruppi, più vicini al nazismo, preferivano chiamarlo “Zionist Occupation Government”, un termine che esisteva già a metà degli anni ’70.

Sconfiggere il ZOG è al centro del seminale The Turner Diaries, romanzo scritto nel 1978 da William Luther Pierce, fondatore della National Alliance, un gruppo di suprematisti. Racconta la storia dell’Ordine, un gruppo di coraggiosi umani bianchi che orchestrano una violenta guerriglia contro il Sistema, un governo controllato dagli ebrei che ha rubato tutte le armi e trasformato in crimine d’odio ogni forma di difesa dei bianchi dalle “invasioni dei selvaggi”. Nel 1984, ispirandosi non solo al nome, ma anche alle sue tattiche più violente, una vera organizzazione chiamata The Order ha assassinato un conduttore radiofonico, l’ebreo Alan Berg, accusato di averli presi in giro durante una trasmissione. Anche Timothy McVeigh, il terrorista di Oklahoma City, era un grande fan del libro; giustificò il suo attentato definendolo un contrattacco a un sistema di governo oppressivo. Alcune pagine fotocopiate dei Turner Diaries sono state ritrovate nella macchina che guidava poco prima dell’attacco.

Durante quella serata nei campi del Kentucky, questa impenitente e raffinata variante d’odio veniva sparata a tutto volume da, l’abbiamo già nominato, Art Jones, un vecchio antisemita dell’Illinois armato di un sorprendente paio di polmoni. «Il presidente Trump, adesso, si è circondato di ebrei», urlava, non dicendo proprio la verità. «C’è un ebreo anche nella sua famiglia!». Il suo pubblico, seduto attorno lunghe tavole di legno allineate sotto una tenda bianca, mormorava indignato, tutti d’accordo a eccezione di due bambine evidentemente impegnate a disegnare. «Mi spiace aver votato quel figlio di puttana», urlava ancora. Una donna calmava un bambino agitato; un tizio basso con la canottiera e una fascia con la svastica si guardava intorno, confuso tra Jones e il leggio, forse alla ricerca di un’altra birra.

«Non abbiamo votato Trump perché siamo razzisti», ha detto uno dei partecipanti al comizio, «volevamo solo riavere il nostro cazzo di lavoro». Foto: Tod Seelie

Apparentemente, erano i bianchi poveri del Kentucky la ragione che aveva spinto i razzisti a incontrarsi vicino Pikeville. Ma i veri cittadini di Pikeville non erano presenti all’incontro di Democrat; un uomo del posto aveva ceduto il suo terreno per fare il comizio – le sue simpatie politiche non sono chiare – ma la quasi totalità dei partecipanti veniva da un altro stato.

Le forze del candore presentavano grande varietà: alcuni erano razzisti giovani, altri razzisti un po’ più vecchi. C’era il National Socialist Movement, un partito neo-nazista con un leader, il “Comandante” Jeff Schoep, che vive a Detroit. (Il NSM usa titoli dell’esercito per darsi quell’aria da rigore militare tanto in voga nei gruppi suprematisti). C’erano anche i “Global Crusaders: Order of the Ku Klux Klan”, un braccio particolarmente giovane del KKK. La maggior parte dei membri viene dall’Alabama, ragazzi magrolini e pieni d’acne. Dietro di loro c’erano anche alcuni rappresentanti degli Original Knight Riders Knights of the Ku Klux Klan, uomini più anziani vestiti di nero paramilitare; uno di loro si faceva chiamare Sky Soldier, e assomigliava a Willie Nelson. Quando gli ho chiesto di concedermi un’intervista, mi ha timidamente consegnato il suo tesserino. “Soldiers of God”, diceva, “Militanti Cristiani dal 1118 d.C.”.

C’erano anche i ragazzi di Vanguard America, un gruppo di nazionalisti giovani e dall’aria hipster. La loro presenza metteva a disagio il resto dei partecipanti, ma le loro idee erano indistinguibili da quelle del partito: un nuovo stato per i bianchi, niente musulmani, attenti agli ebrei. (“Conosci il tuo nemico”, diceva uno dei loro volantini su cui svettava un George Soros demoniaco, senza occhi e con una stella di David disegnata sul bavero. “Perché lui conosce te”).

Il pubblico del comizio suprematista litiga con alcuni contestatori antifascisti. Foto: Tod Seelie

C’era anche Brian “Sonny” Thomas, un nazionalista dell’Ohio con un taglio mullet e un grande amore per il classic rock. Nel 2010 finì su tutti i giornali perché voleva sparare agli ispanici (“Oggi è pieno di clandestini! Grr. Dov’è la mia pistola?”) nonostante avesse avuto un figlio da una donna ispanica. Presentava uno show radiofonico online, e spesso attirava l’attenzione dei quotidiani locali perché faceva cose come sventolare la bandiera dei Confederati durante le riunioni del consiglio scolastico.

Ho avvicinato Thomas per fare due chiacchiere. «Sarai onesta?», ha chiesto.

«Lo spero», ho risposto. Ha sorriso, e poi si è lanciato in un lungo monologo che abbracciava un ampio ventaglio di argomenti: Donald Trump («è totalmente circondato dagli ebrei»), il recente bombardamento della Siria (uno scandalo: eravamo d’accordo, ma per ragioni diverse), il Venezuela, i diritti dei padri, il sistema aureo, Dylann Roof, l’uomo della strage di Charleston (un attacco sotto falsa bandiera, pensava Thomas, o forse una vittima di MK Ultra o di qualche altra forma di controllo mentale). Era anche preoccupato dalle molestie infantili: «Lassù nelle alte sfere del potere, c’è molta pedofilia», ha spiegato. «È arroganza. Quella gente si sente intoccabile».

Thomas era convinto che molti dei problemi del nostro mondo fossero causati dai globalisti, gente come il fondatore della CNN, Ted Turner, e Bill Gates, ed era altrettanto sicuro che il declino morale dell’America fosse tutto da imputare agli ebrei. «I media sono controllati da sei aziende, tutte proprietà degli ebrei». Ma in quel momento, ha detto, sentiva un’aria incoraggiante: «Posso parlare con persone come te come se fossimo dal benzinaio, senza toni esagerati, capisci? La comunicazione è il primo passo».

«Sono ebrea», ho detto. La sua faccia ha registrato numerose sfumature di educata sorpresa.

«Non c’è problema!», ha risposto alla fine, rassicurandomi. «Penserai che io dica un sacco di stronzate. E va bene così».

Estratto dal libro Republic of Lies: American Conspiracy Theorists and Their Surprising Rise to Power di Anna Merlan, pubblicato in America da Metropolitan Books. © 2019 by Anna Merlan.

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