Prima che l’amministrazione Trump decidesse di punire i migranti separando i bambini dalle loro famiglie, 10mila minori clandestini erano già in custodia da otto mesi, ospitati in rifugi sparsi per tutto il paese gestiti da decine di aziende private finanziate dall’Office for Refugee Resettlement. La maggior parte di questi rifugi ha precedenti preoccupanti – storie di maltrattamenti, violenza e abusi sessuali -, ma uno in particolare è impresso a fuoco nella memoria dei suoi “ospiti”: lo Shiloh Treatment Center di Manvel, Texas.
Lunedì un giudice federale ha ordinato al governo di rimuovere i minori ospitati a Shiloh, e ha aggiunto che il governo Trump deve abbandonare la pratica di prescrivere a questi bambini farmaci psicotropi senza l’approvazione dei genitori o di una corte. I bambini di Shiloh hanno raccontato ai legali e alle famiglie che durante la detenzione erano sempre sotto l’effetto dei farmaci, che erano costretti ad assumerli e che i membri dello staff li abusavano. (Uno dei dottori che firmava le ricette, Javier Ruìz-Nazario, ha perso la licenza anni fa, come ha scoperto il Center for Investigative Reporting).
«Prendevo nove pillole la mattina e sette la sera. Non so cosa fossero, non me l’ha mai detto nessuno», ha detto uno dei bambini. Le pillole, inoltre, erano un’aggiunta alle iniezioni che lo staff utilizzava per controllarne il comportamento. «Arrivavano e mi facevano un’iniezione per tranquillizzarmi… mi sentivo subito assonnato, pesante, senza forze. Dormivo per tre o quattro ore, e riacquistavo le energie molto lentamente».
Quella di questo minore – che dal momento del suo arrivo dal Messico, nel 2014, è stato ospitato da sei rifugi diversi diffusi in tre stati – è solo una delle tante storie dell’orrore ascoltate dagli avvocati incaricati di assicurarsi che il governo offra a questi bambini un trattamento umano.
La decisione di lunedì del giudice Dolly Gee, però, è una vittoria solo in parte: i bambini che costituiscono un “rischio per se stessi o gli altri” dovranno restare a Shiloh. Capire chi sia davvero in queste condizioni, chi prende la decisione e come arriva a prenderla è la preoccupazione principale degli attivisti. Oggi le aziende che lavorano con il governo possono farlo unilateralmente, e una volta che un minore è considerato “rischioso” può essere inviato a un rifugio più severo – uno da cui è molto più difficile uscire.
I rifugi si dividono in tre categorie di “sicurezza”, fino ad arrivare ai cosiddetti “secure care Shelter”, l’equivalente di un centro di detenzione giovanile. Fino a poco tempo fa l’unico modo per uscire da questi centri era l’autorizzazione diretta del direttore dell’Office for Refugee Resettlement, Scott Lloyd.
Nell’ultimo anno sono 750 i bambini considerati sufficientemente a rischio da meritare un posto nei secure care shelter. Solo il 12% è stato rilasciato, una percentuale infinitamente inferiore al 90% del periodo precedente. Secondo Leecia Welch del National Youth Law Center, la maggior parte di questi bambini non è consapevole di quello che gli sta succedendo, non sanno quando verranno trasferiti in una struttura diversa. «Li svegliano di notte, non gli dicono dove li portano, li mettono sull’aereo, e dopo sei ore ammanettati si ritrovano in una prigione – queste sono le cose che possono succedere, anzi che sono successe a un giovane con cui ho parlato un mese fa», ha detto a Rolling Stone.
«L’Office for Refugee Resettlement costringe minori in strutture che sembrano carceri, sono letteralmente intrappolati in piccole celle di cemento e vedono la luce del sole un’ora al giorno», ha detto. «Nessuno gli ha dato spiegazioni, nessuno chiarito le accuse e nessuno gli ha dato l’opportunità di raccontare la loro versione della storia».