Ha una giacca a vento celeste più grossa di lei, «My name is Sonia» dice con voce bassa che devi chinarti per sentire, e ha due ciuffi biondissimi che sfuggono al cappuccio. Ha appena superato decisa il confine tra l’Ucraina e la Romania, anticipando di vari passi sua madre, le amiche della madre e gli occhi svegli di suo fratello più piccolo Luca, che si trascina uno zaino trolley e non la molla un attimo.
Sonia ha il piglio attivo di chi intuisce che tocca a lei dare una forma al futuro del momento, mentre la sorellina Aisha ci mette un secondo a finire conquistata dallo zucchero filato con cui l’esercito di volontari schierati si premura di accoglierla, e il resto pare pesare di meno.
Vengono tutti da Kharkiv, la seconda città ucraina e tra le più bombardate in questa guerra. Il padre è rimasto per essere pronto ad arruolarsi nella milizia cittadina: viaggiano da una settimana, hanno tutto o niente infilato in sacchetti della spesa e due borsoni da palestra, vorrebbero andare a Verona. Verona? «Sì, abbiamo dei parenti là».
Sonia ha 17 anni, jeans che si arricciano sugli stivali col pelo, occhi blu chiaro e unghie affilate con ricami curati. Sua madre è di fianco a lei e non la perde di vista mai, ha gli occhi gonfi che sembrano stanchi, fa segno con le mani sulla bocca per dire che «non parlo inglese» e ha l’aria sconvolta. La sua amica non riesce a dire nulla.
È Sonia che va dritta dai pompieri, e loro le stanno attorno in cerchio con l’attenzione di capire, lei allora spiega dove la sua famiglia vuole andare, tratta l’opzione migliore, il bus a che ora parte, dove dobbiamo andare, quanto dobbiamo pagare, forse niente, ditemi che intanto traduco e spiego agli altri. Senza di lei, la mediazione per la salvezza del momento non sarebbe possibile. E anche Paolo, in arte il clown “ventolo” venuto qui da Vasto a far sorridere bambini e ragazzini su uno dei bordi estremi di questa guerra, a Siret, novemila abitanti nel Suceava, Romania, al confine con l’Ucraina, è sorpreso dalla negoziazione dell’adolescenza.
C’è un pezzo di mondo mobilitato, in questo mezzo chilometro d’asfalto transennato ai bordi da grande evento, diventato d’emergenza kasbah di conforto tra la dogana ucraina e i tendoni riscaldati dei volontari di mezza Europa. Cattolici, ortodossi, ebraici, c’è la Croce Rossa, la mezza luna turca, i mediatori linguistici, zuppe strane che comunque vada scaldano, ci sono i veterinari ad accudire gli animali trascinati pure loro in questa diaspora forzata.
Senza chiedere se hanno sim telefoniche, tè caldo, vestiti puliti, mestoli di chorba fumante, snack, giocattoli infilati nei passeggini, sui prati fangosi i corvi sorvolano. I furgoni umanitari passano incessantemente, a passo d’uomo, sfrecciano davanti all’hotel Frontier gestito da Roger che offre toilette, prese elettriche e un primo conforto gratis a chi ne ha bisogno.
E si avvicinano alla dogana mentre c’è chi senza scrupoli si aggira tentando di approfittarsi di chi ha già perso tanto e per andare altrove è pronto a dare tutto quel che resta. Si chiedono anche 300 euro a testa, per un viaggio in van o in autobus verso altrove, e qualcuno sfuggito ai controlli rafforzati e ai volontari più genuini ha anche accettato dalla disperazione.
Qui, al confine tra la fuga dalle bombe e la salvezza temporanea che offre l’Occidente, dall’inizio della guerra sono già passati oltre 200 mila ucraini in cerca di un rifugio, per poi disperdersi in Europa. Ed è qui il momento in cui i ruoli della vita fin lì conosciuta si invertono. Madri, figli, tutto si ribalta in un attimo che racchiude tutta l’umanità fin qui conosciuta.
Sono le madri sole che portano per mano i figli fino alla dogana, nell’esercizio più naturale che un genitore possa svolgere, ma poi sono le stesse che non hanno gli strumenti per aprire la porta del nuovo mondo. Mancano la forza, l’impulso, la sana incoscienza. E allora sono i ragazzini che prendono in mano la situazione, con una discreta dose di inconsapevolezza del vuoto davanti pur senza le chiavi, adulte, per potervi accedere.
Dasha ha 18 anni e traduce per la madre. Con l’inglese che sa già molto bene, e con l’impudenza giovane che fa centrare il punto oltre quella dogana senza voltarsi. Si va dritti, dobbiamo. Lei, la mamma Ania, il piccolo Igor di due anni, arrivano da Kiev. È il cognato di Ania, Alessandro Magister, 44enne romano, ad aver orchestrato l’arrivo al confine dei famigliari della moglie ucraina grazie al supporto dei volontari milanesi della Fondazione Arca, che hanno ospitato per tre giorni al loro campo base a Milișăuți la famiglia che ha dovuto lasciare il padre a combattere nella capitale tra le fila della milizia cittadina. Dasha dice che «sono contenta di andare a Roma, so che poi torneremo presto a Kiev quando la guerra finirà» mentre la madre Ania è sul materasso del rifugio al telefono col suo uomo rimasto a combattere, disconnessa dal mondo attorno. Dasha è il suo tramite con il nuovo presente, Igor non molla lo schermo del cellulare dove scorrono i cartoni. Dopo due giorni di attesa, sono tutti partiti per Roma, una nuova vita da costruire, chissà per quanto.
Sonia, Dasha. E Davide e Cristian, gemelli, nati in Italia ma vissuti nelle campagne di steppa vicino a Kiev, con la babushka Maria, 74 anni. I genitori li stanno aspettando sul lago di Como. «Siamo d’accordo con l’autista di un pullman per portarci da loro» dicono ai due ai soldati al confine, la nonna assiste, chissà se capisce ma annuisce. «Ma dovete pagare?» chiedono i volontari italiani pronti alla frontiera per ogni evenienza. «Sì, 250 euro a testa ci hanno detto». E allora in un attimo si attiva la macchina organizzativa che dribbla chi su questa tragedia impensabile agli occhi dell’Ovest sta provando a speculare. Nonna e nipoti vengono accolti al rifugio dei volontari milanesi, a mezz’ora dal confine, ci staranno due notti, e partiranno con un bus gratuito fino a Milano e poi in treno a Como dalla mamma. Che ringrazia commossa al cellulare degli sconosciuti che in questa storia vogliono solo aiutare senza ricavarci nulla se non una pienezza che viaggia su altri canali.
Tra i ragazzini di frontiera c’è anche Marie, Vlasenko di cognome, fa la ballerina, gambe lunghissime e una vita minuscola, ha 17 anni, traduce tutto alla mamma Ania e al padre Aleksander, il fratellino Misha e il gatto Mila esce dalla gabbia solo ogni tanto perché se no scappa tra i materassi. Vengono da Kiev, sono stati i vicini di casa ad accompagnarli fino alla frontiera in macchina, sarebbero venuti in Romania anche loro ma hanno un famigliare disabile e non sono riusciti a organizzarsi per il viaggio. Così, al confine dove più in là non si poteva andare, hanno girato la macchina e la loro immagine si è fatta sempre più piccola nello specchietto retrovisore dell’auto. Vanno a Tallin.
La madre che fa la chef a domicilio ha conoscenze lì, ma prima passano per Cracovia, Varsavia, poi Riga e poi finalmente l’Estonia, due giorni dopo. «Torniamo presto tanto», ripete di continuo Marie, e nessuno che ascolta ha il coraggio di dire che no, forse non sarà così. Eugene, il suo partner di ballo, la aspetta là. Sono ospitati assieme ad altre centinaia di profughi nella hall dell’hotel Mandachi, diventata una distesa di materassi numerati, animali da compagnia e valigie riempite di fretta dopo che il proprietario Stefan Mandachi ha riconvertito quasi tutto il suo 4 stelle lusso romeno di marmi pregiati e vistosi lampadari in un grande rifugio gratis per chi scappa dalla guerra. «Mi ripaga sapere di fare qualcosa di buono, cosa c’è di più?» ci racconta con orgoglio, anche il suo ufficio è un ostello d’emergenza e lui si premura che nessuno venga fotografato se non lo desidera.
Olena ha 37 anni, capelli rossi, è la mamma di Nadia, 13 anni, biondissima. Arrivano a braccetto, alla frontiera, alle loro spalle c’è il sobborgo di Kharkiv, «too dangerous», e lo dice la ragazzina, che sorregge la madre e la abbraccia quando lei scoppia a piangere col vuoto negli occhi. Polina poi ha il suo modo di esorcizzare il momento. Disegna sui bicchieri di cartone del tè dei volontari grafiche con i ringraziamenti per l’accoglienza ricevuta, in varie lingue, intanto si scalda le mani davanti a un fungo a gas che dà calore al tendone. Ha 14 anni, parla un inglese chiaro e con una certa fierezza gira le pagine dei suoi quaderni zeppi di disegni di eroine dei cartoni stilizzate che si è infilata nello zaino prima di partire. La sua famiglia è di fianco a lei mentre lei dirige il traffico di questa attesa al confine. «Sono potuto uscire dall’Ucraina perché abbiamo una figlia in affidamento, Nastya – dice suo padre Vadim – altrimenti sarei là a combattere, mi sento in difetto per questa cosa verso il mio Paese, non mettete il mio cognome per favore».
Sua moglie, Elena, mamma di Polina, non capisce nulla di quel che si dice, ci si intende a sguardi, solo si accerta che i figli stiano bene e le basta questo. Andranno a Dublino, dove il marito ha dei contatti di lavoro, poi si vedrà. Se si potrà tornare a casa, oppure no. «Noi pensiamo un mese, al massimo due». Forse si. O più drammaticamente, forse no.
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