Veronesi a Saviano: «Mettiamo i nostri corpi sulle navi che salvano i migranti» | Rolling Stone Italia
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Veronesi a Saviano: «Mettiamo i nostri corpi sulle navi che salvano i migranti»

Lo scrittore ha inviato una lettera aperta all'autore di Gomorra, pubblicata sul Corriere: «Caro Roberto, la nostra civiltà sta andando a picco, laggiù. Tutto il resto è rumore, è distrazione»

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Ripubblichiamo integralmente la lettera dello scrittore Sandro Veronesi pubblicata sul Corriere della Sera.

Caro Roberto Saviano,

ti scrivo per interrogarti su ciò che ultimamente sta assorbendo parecchie delle mie energie, e anche un bel po’ del mio sonno. Una riflessione che, per darle un titolo, potremmo chiamare sul «tempo del corpo». Mi sto chiedendo, cioè, nella frustrazione in cui non nascondo di annaspare, se non sia venuto un tempo diverso per tutti noi, uomini e donne non «buoni» né tantomeno «buonisti», ma semplicemente «di buona volontà», come dicono gli angeli nel giorno della natività, augurando la pace sulla Terra.

Ciò che sta accadendo nel Mediterraneo non ha certo a che fare con la pace, ed è inaccettabile; ma non perché i barconi colmi di persone partono dalle coste libiche verso il nostro paese: questo è un fenomeno comune, si chiama migrazione — anche poco significativo, in termini strettamente numerici —, che nel mondo è sempre esistito. È inaccettabile perché inaccettabile è la propaganda che l’accompagna, e che rovescia la realtà chiamando «pacchia» o «crociera» la tortura cui quegli esseri umani sono esposti, e li vuole lasciare in balia degli scafisti o della guardia costiera libica, cioè i veri «trafficanti di uomini», calunniando con quella definizione le Ong che cercano di salvarli. Tutto questo è atroce e provoca un’angoscia che io fatico a sopportare. E poiché vedo che fine fanno le parole, ora che la mistificazione ha superato, in termini di consenso popolare, la corretta informazione, mi chiedo se non sia il caso di rompere gli indugi e metterci direttamente il corpo. Perché noi siamo un corpo, e anche le nostre parole vengono dal nostro corpo, e il corpo è ben più di esse — il corpo è la vita stessa —.

Ecco dunque che scrivo a te, caro Roberto, dato che il tuo corpo è già in ballo, da anni, è già sul campo — e infatti ogni tanto spunta la minaccia di «toglierti la scorta», cioè di lasciarlo indifeso, quel tuo corpo: una minaccia che a me, per esempio, non può essere rivolta —. Scrivo a te perché in questa condizione hai certamente sperimentato una certa solitudine. E ti dico che «metterci il corpo» per me ha un significato solo: significa andare laggiù, dove lo scempio ha luogo, e starci, col proprio ingombro, le proprie necessità vitali, la propria resistenza, lì. Il corpo, il mezzo più estremo di lotta nella tradizione della non violenza. Dunque, la prima domanda che ti rivolgo è: cosa pensi tu di questa — in fondo — banalità? Esagero?

Dopodiché, lasciami dire una cosa. Ciò di cui stiamo parlando — l’oggetto della mia rabbia — non è la politica ostile all’accoglienza che ormai accomuna ogni paese del mondo. Ciò di cui stiamo parlando è la differenza tra la vita e la morte. Non posso credere che il cumulo di menzogne che le viene quotidianamente gettato sopra riesca davvero a occultare questa enormità. E penso che debbano esserci per forza persone influenti, non necessariamente legate alla tradizione delle battaglie civili, che dinanzi a questo madornale inganno si sentono eccezionalmente tirati in ballo. Non pensi che sarebbe decisivo se qualcuna di queste persone sentisse lo stimolo di metterci il proprio corpo? Sacrificandosi, è ovvio, perché il corpo non fa sconti, e se sta là non può stare qua. Che dici, Roberto, vaneggio? Ammesso che una di queste navi Ong che incrociano al largo delle acque libiche conceda qualche posto a bordo, pensi che i corpi più importanti del nostro Paese — cioè quelli più valorosi, più ammirati, più amati, più belli, più dotati, più preziosi, più popolari, più desiderati —, siano tutti impossibilitati a unirsi a me e a te, nell’occupare quei posti? Io, di certo, non basto. E nemmeno tu sei abbastanza, Roberto, dato che come abbiamo detto tu ci sei già, in ballo, e il tuo corpo è già il puntaspilli dell’attuale propaganda.

Ci vorrebbe, per dire, il commissario Montalbano, che ha il doppio di spettatori di quanti elettori abbia avuto la Lega a marzo. (Tra l’altro, nel backstage della prossima stagione, che già circola in rete, sembrerebbe che lui, cioè non Luca Zingaretti, ma proprio Montalbano, il personaggio, sia già lì, in mezzo al mare, a braccia aperte). Sempre per dire, mi sono sentito di colpo molto più forte quando ho visto la fotografia di Totti con in mano la scritta #withrefugees dell’Unhcr: pensa se il corpo ce lo mettesse lui, pensa se su una di quelle navi ci fosse Totti. Il suo corpo su una di quelle navi farebbe capire a un sacco di persone come stanno le cose, più di mille parole. Sto sognando? Sto dicendo una sciocchezza? Checco Zalone. O Claudio Baglioni. O Federica Pellegrini. O Jovanotti. O Sofia Goggia. O Celentano. O Monica Bellucci che fa da interprete dal francese. O Chiara Ferragni che allatta. O Giorgio Armani che compie 84 anni. Sulla nave. Laggiù. In quel tratto di mare dove la gente viene lasciata morire per opportunismo, o far pressione su Malta, o su Macron. Ovviamente sto facendo nomi così, di getto, non sto convocando nessuno, non mi permetterei mai di farlo: dico solo, a te che sei perennemente convocato, che forse ora ci vorrebbe qualche persona veramente influente che ci metta il corpo — per interrompere perlomeno la barbarie della propaganda, della calunnia —. Ne basterebbe anche solo uno, secondo me. Cosa ne pensi?

Lo so, più i corpi sono preziosi, più hanno da rimetterci a fare una cosa del genere. E va bene: vorrà dire che ci rimetteranno. Sarà un modo di restituire un po’ della fortuna che hanno avuto, di investirla per il futuro. D’altronde, ormai, secondo me ci rimettono anche se non lo fanno. Questa è una di quelle situazioni dalle quali non si scappa: o sei Rita Pavone, e la pensi in quel modo, oppure sei quei corpi che resistono fino allo stremo e poi alla fine si riempiono d’acqua e cessano di vivere. Non c’è via di mezzo. Se l’attuale follia non s’interrompe al più presto, tutti ci rimetteranno — anche Rita Pavone — e tanto. C’era un giornale laico, in Algeria, che il giorno delle elezioni del 1991, quelle insanguinate dagli attentati degli integralisti islamici, uscì con questo titolo: «Se voti, muori. Se non voti, muori. Dunque vota, e muori». Qui non si tratterebbe di morire — quello è un destino riservato ad altri —: qui si tratterebbe solo di farsi coprire d’insulti da un manipolo di account sui social media, per avere indicato con l’autorevolezza del proprio corpo dove si trova il torto e dove la ragione. Da quando il Mediterraneo ospita la civiltà, cioè da migliaia di anni, il naufrago in mare è sempre stato considerato sacro: anche i fenici (i fenici: li vuoi più cattivi di loro?) lo traevano in salvo e gli riservavano l’onore dell’ospitalità, non foss’altro per superstizione, perché non avessero a offendersi gli Dei ai quali esso, il naufrago, partendo, si era raccomandato. È inaccettabile che questa regola venga sospesa oggi, con tanta leggerezza. Ma è proprio quello che sta succedendo.

Caro Roberto, la nostra civiltà sta andando a picco, laggiù. Tutto il resto è rumore, è distrazione. Non credi che sia necessario attirare lo sguardo di tutti dove sta succedendo la cosa che ci toglie il sonno, senza distrarsi appresso alle provocazioni e alle manfrine di chi ne è responsabile? Pensi che sia possibile, aggiungendo corpi ai corpi? La differenza tra la vita e la morte, stiamo parlando di questo. Sembra impossibile ma dall’esser tutti fratelli siamo scivolati con poche mosse in questo fango, dove questa differenza non si vede più. Bisogna uscirne, Roberto, e forse il corpo stavolta può aiutarci: il tuo, il mio, e quello di chi ha da perderci più di te e di me, se vorrà mettercelo.

Un abbraccio

Sandro