"Via col vento", le statue abbattute e la fine dell'orgoglio confederato | Rolling Stone Italia
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“Via col vento”, le statue abbattute e la fine dell’orgoglio confederato

La rimozione delle statue del generale Lee e quella di "Via col Vento" dal catalogo di HBO Max ci dicono che non è per niente vero che la Storia la scrivono i vincitori

“Via col vento”, le statue abbattute e la fine dell’orgoglio confederato

Silver Screen Collection/Getty Images

Le polemiche nate intorno alla rimozione della statua che commemorava il generale sudista Robert Lee e la rimozione momentanea di Via col Vento dal catalogo della piattaforma americana di streaming HBO Max dimostrano che non c’è espressione più campata per aria di “la storia la scrivono i vincitori”. Anzi, il revanscismo dei perdenti cova sotterraneo per affiorare prepotente e travolgere quelle deboli barriere della retorica ufficiale. Basti pensare a come nel corso degli anni Novanta la retorica sui “ragazzi di Salò” abbia attirato simpatie anche in esponenti del centrosinistra di allora.

Ma in questo caso la storia, per decenni, è stata scritta dai perdenti. Sconfitti eccellenti. Parliamo appunto degli ex generali e politici confederati, gli esponenti di quello stato non riconosciuto formatosi dall’unione di 11 stati schiavisti che si scindettero dall’Unione americana perché ritenevano che la “peculiare istituzione” della schiavitù dei neri fosse in pericolo. Avevano ragione. E infatti la nuova repubblica che avrebbe dovuto avere come proprio architrave la schiavitù, o meglio il suo potere economico, durò solo poco più di quattro anni. Il Congresso era dominato dall’ala radicale del partito repubblicano, allora molto progressista, e in breve tempo emendò la Costituzione dando diritto di voto e cittadinanza agli afroamericani e mandando truppe a controllare che gli ex schiavi ricevessero davvero quanto gli spettava. Non andò così, e già nel 1867 ci fu il primo Ku Klux Klan, sconfitto e sciolto con le armi. Ma presto arrivò il disinteresse e nel 1876 il Nord abbandonò il Sud al proprio destino e ben presto rimise in neri in una condizione semiservile, che si potrebbe definire “mezzadrile” quasi ovunque.

Mentre tutto questo avveniva, venivano stampati memoriali: il primo uscì già nel 1866, un anno dopo la fine della guerra. S’intitolava A Memoir of the Last Year of the War for Independence, in the Confederate States of America. Un titolo prolisso per in libro che conteneva la locuzione “lost cause”, causa persa. Lì la storia cambiava radicalmente rispetto alla realtà: il ruolo della schiavitù? Minimale. La guerra fu l’autodifesa del Sud che cercava di difendere il proprio stile di vita contro la protervia del Nord che cercava di imporre l’industrialismo e rovinare l’armonia sociale che si era creata, sobillando gli schiavi contro i loro padroni. Prima, vivevano in armonia e senza contrasti. Una guerra persa quindi, ma della quale essere orgogliosi.

A contribuire a costruire una memoria monumentale di quel conflitto fu, a fine Ottocento, lo scultore virginiano espatriato a Roma Moses Jacob Ezekiel, autore tra l’altro del memoriale confederato del cimitero militare di Arlington. Questo mood revisionista venne accettato anche a Nord per una ragione semplice: perché era funzionale a una riconciliazione bianca, culminata nella stretta di mano collettiva di circa 50mila tra veterani unionisti e confederati. I neri ovviamente, sparivano e perdevano il loro ruolo nella storia. Cancellati gli oratori appassionati come Frederick Douglass, dimostrazione vivente della fallacia delle teorie dei neri come naturalmente sottomessi ai bianchi. Anche perché, per tenere sottomessa la popolazione, ci si serviva della violenza: il linciaggio dei presunti colpevoli di crimini contro i bianchi divenne una triste presenza nella cronaca dei giornali locali. La National Association for the Advancement of Colored People (Naacp) metteva fuori dalla propria sede newyorchese una bandiera nera con la scritta “un uomo è stato linciato ieri”. Questi brutali omicidi non solo non venivano mai perseguiti dalle autorità, ma spesso venivano ampiamente tollerati, quando non caldeggiati, come nel caso di Jesse Washington, accusato di omicidio e mutilato e bruciato da una folla a Waco, in Texas, il 15 maggio 1916 alla presenza di un vasto pubblico comprendente anche donne e bambini.

Quella brutalità era funzionale proprio a quella narrazione tossica. Era colpa di quei neri se quella società armoniosa era scomparsa. Dovevano rimanere fedeli ai loro oppressori, secondo il tacito messaggio di quegli apologeti. Apologeti che trovarono una sponda sia alla Casa Bianca, dove dal 1913 al 1921 viveva il presidente democratico Woodrow Wilson, nativo della Virginia, riteneva un tragico errore la concessione del voto ai neri, ma anche nel nascente mondo del cinema. Non solo nel ben noto Birth of a Nation, un kolossal del 1915 dove la presenza del Klan veniva raccontata come un giusto contraltare alla prepotenza dei neri e dei nordisti “paracadutati”. Ma anche nella commedia Il Generale del comico Buster Keaton, dove le peripezie del macchinista della Georgia aiutano a mettere in luce l’eroismo confederato nella guerra.

Ma è soltanto nel 1939 che questa concezione arriva al trionfo con Via col Vento. A vividi colori è rappresentata una società meravigliosa, composta di donne eleganti come Vivien Leigh e Olivia DeHavilland e di uomini coraggiosi e simpaticamente sbruffoni come il Rhett Butler di Clark Gable. Sullo sfondo, una terribile aggressione, l’assedio di Atlanta del 1863 operato dal generale Sherman, che rovina l’armonia tra padroni e schiavi, tra le quali spiccava Hattie McDaniel, l’indimenticabile Mamie vincitrice dell’Oscar come migliore attrice non protagonista, che fu costretta a riceverlo stando in disparte. Il motivo? L’hotel che ospitava la cerimonia a Los Angeles era segregato, anche se in California non c’erano leggi di questo tipo riguardanti gli afroamericani (ma erano ben presenti per i cittadini di origine asiatica).

Il film venne proiettato in anteprima ad Atlanta e contribuì alla definitiva consacrazione della “lost cause”, con i veterani ormai sempre più rari ma le cui azioni eroiche ormai venivano rappresentate sul grande schermo. L’icona che più simboleggiava questo culto era il generale Robert Lee, virginiano eminente di antica discendenza anglosassone sposato con una discendente acquisita di George Washington. Lui, il grande eroe che non aveva mai sbagliato nemmeno nella decisiva battaglia di Gettysburg: fu il generale James Longstreet a sbagliare. Fu solo un caso fortuito che nel dopoguerra Longstreet fosse stato un acceso sostenitore dell’integrazione razziale e contribuì a disperdere con la forza una manifestazione violenta di razzisti a New Orleans nel 1874. Servendosi persino, massima onta, di truppe di colore.

Nel cinema il mito confederato crollerà soltanto nel 2012 con Django Unchained di Quentin Tarantino, che pur con le sue licenze artistiche rappresenta in modo vivido la brutalità del fenomeno schiavistico, di donne e uomini ridotti a proprietà. Solo lo scrittore nativo del Mississippi William Faulkner nel suo romanzo Sartoris faceva un cenno all’insensatezza della “lost cause”. Ma nell’accademia già nel 1935 il sociologo afroamericano con la sua opera Black Reconstruction aveva cercato di ripristinare un minimo di verità storica, con pochi riscontri. Negli anni Settanta, in seguito al movimento dei diritti civili, lo storico Eugene D. Genovese inquadrò il problema con il titolo di un suo libro: quello era “Il mondo che gli schiavisti avevano inventato”. Negli anni Novanta anche il programma scolastico cominciò a cambiare, con maggiore attenzione agli sforzi fatti negli anni della Ricostruzione postbellica.

Con l’omicidio di George Floyd e a quasi tre anni dal raduno dell’estrema destra a Charlottesville nel 2017, adesso anche le statue dei confederati come Lee spariscono dalle piazze. E Via col vento non viene cancellato. Rimane tuttora un capolavoro cinematografico tratto da un romanzo che forse è ancora più bello dal punto di vista letterario. Tornerà sulla piattaforma con delle note introduttive che aiutino a capire il contesto culturale nel quale venne concepito. Una “musealizzazione digitale”, quindi, che mette per sempre da parte una delle narrazioni perdenti più di successo, che aveva tentato di fornire una versione fantasy della Storia, a uso e consumo dell’élite politica dominante al Sud.